-Di Nicolo Capriata–
“La cucina di una società è il linguaggio nella quale essa traduce inconsciamente la sua struttura” ha scritto Claude Levi Strauss. Viene quasi da pensare che quando espresse questo concetto il noto antropologo francese si trovasse a Carloforte. Nulla di più esatto, infatti, per chi conosce gli usi e le abitudini gastronomiche degli isolani di San Pietro. La cucina della comunità carlofortina è di fatto il fedele riflesso delle vicende storiche, delle esperienze lavorative e dello sviluppo socio-economico che l’hanno at- traversata. Fare un tuffo nelle pietanze carlofortine, per esempio, significa immergere il palato anche in cibi che testimoniano la loro origine ligure e il loro trascorso magrebino, a Tabarca. “Carloforte è terra di cucina genovese” scrisse in un memorabile articolo (Le dieci bellezze di Carloforte) il grande giornalista genovese Giovanni Ansaldo nel 1953 “Più di quanto sia ormai la stessa Genova e dove non c’è che ordinare a minestra col pesto per vedersela servita”.
A parte l’immancabile pasta al pesto, i carlofortini dai loro antenati pegliesi hanno conservato nella loro alimentazione la “fainò”, farinata, inevitabilmente presente in ogni scampagnata e che fino alla prima metà del secolo scorso veniva venduta per i caruggi dai ragazzini, così come accadeva nei caruggi di Genova, e la fügassa che è la focaccia genovese. Per non parlare del zemin de sciaxi, zemino di ceci, pietanza retaggio di un’antichissima cucina ligu- re. Ma i carlofortini, come gli amici calasettani e spagnoli di “Nueva Tabarca” per quasi due secoli sono vissuti a Tabarca. Quando hanno abbando- nato lo “scoglio” africano per approdare in nuove isole, nei bauli della loro memoria oltre all’antico ricettario genovese hanno riposto una nuova ricetta culinaria, il couscous, che hanno chiamato nella loro lingua cascà, diventato subito uno dei piatti principe della loro rinomata e tradizionale cucina.
Dal Maghreb si sono portati anche i semi di un ortaggio, fakus in arabo, facussa in tabarchino, che accompagna nella stagione estiva tutti i loro antipasti a base di tonno. Ecco, il tonno cotto in mille modi e con mille salse è il protagonista di un ricettario altrettanto blasonato che trae origine dalla pesca di questo pesce che i carlofortini hanno sapientemente praticato, prima lungo la costa tunisina e poi in San Pietro.
I carlofortini non furono solamente pescatori di tonni, aragoste e coralli, ma in virtù delle loro origini liguri furono anche abili e capaci marinai e nei loro viaggi in lungo e in largo per il Mediterraneo a bordo delle loro bilancelle non mancavano le gallette, confezionate per essere con- servate a lungo. Oggi le gallette che sono in vendita in ogni panetteria isolana, sono particolarmente utiliz- zate nella capunadda, altra pietanza tradizionale della cucina isolana che manco a dirlo è anche tipica del- la cucina genovese. C’è ancora da aggiungere che spesso il lavoro di un uomo è la sua cucina perché a questo adegua la sua alimentazione. Gli alimenti che accompagnavano nei loro viaggi i marinai carlofortini, al pari delle gallette erano a lunga conservazione come il tonno conservato sotto sale, in particolare la tuniña, il baccalà, lo stoccafisso.
Cibi che imbandivano anche la tavola di chi rimaneva a casa, oggi rinomati e “costosi” ma allora con- siderati semplici e “poveri” e che quindi non gravavano più di tanto sul bilancio familiare. E povera era anche la “bobba” minestra di fave secche che la cottura rende cremosa, ed ora è invece una squisitezza culinaria ricercata dai buongustai. Ed è in questo contesto di origini e di storia, dove le radici sono ben marcate, di lavoro e di abitudini, che la gastronomia carlofortina, si è affermata diventando un’autentica delizia del palato per viaggiatori e buongustai. Ma soprattutto la cucina isolana è un retaggio di sapori e saperi mediterranei da annoverare nella caratteristica quanto singolare cultura tabarchina. Un patrimonio da custodire gelosamente e da trasmettere intatto alle generazioni future.
I modi di dire carlofortini… a tavola
Se ricca e variegata è la cucina carlofortina altrettanto considerevole e originale è la fraseologia che le fa, è il caso di dire, da contorno. Tra le duemila e più locuzioni e modi di dire della lingua tabarchi- na, non pochi prendono spunto dai piatti tradizionali ma anche dagli atteggiamenti e dalle considerazioni che i carlofortini han- no al riguardo dei cibi. Come per il tonno, piatto apprezzato della loro alimentazione e del quale ogni parte si mangia e per il quale di sovente dicono du tunnu tüttu l’è bun (del tonno tutto è buono).
Ma buono per i carlofortini è anche qualsiasi frittura: fritu tüttu l’è bun, fiña i pé da tóa (a söa de scorpe, e patte dell’àncua), fritto tutto è buono perfino i piedi del tavolo (la suola delle scarpe, le braccia dell’ancora). Non mancano poi gli apprezzamenti come u l’è in bucun da preve (è un boccone da prete) o anò inte unge di pé (andare nelle unghie dei piedi) quando una bevanda un pasto o una pietanza sono stati particolarmente graditi e gustati. Naturalmente non mancano le proposizioni sull’altra pietanza storica il cascà, il couscous tabarchino. Per dire a qualcuno, tra il serio e il faceto, che non si vorrebbe avere tra i piedi gli si apostrofa ti vegnisci u giurnu du cascà! (verresti il giorno del cascà!) in pratica una volta all’anno. Era tradizione un tempo consolidata che in ogni famiglia carlofortina il cascà si dovesse preparare (quasi obbligatoriamente) il 4 novembre, festività di San Carlo patrono di Carloforte.
Ma a il cascà a differenza di quanto si potrebbe percepire dall’espressione su menzionata, si cucinava (e si cucina) frequentemente e per il suo carattere di convivialità spesso si consuma in famiglie allargate a nonni, zii nipoti e cugini. Forse è da questi festosi banchetti che è nata l’espressione dóppu sette tundi de cascà u s’accortu cu l’éa fattu (dopo sette piatti di cascà si è accorto che era insipido), che ha il significato di dire che qualcuno si è avveduto in ritardo di un qualcosa o per troppa distrazione o per poca acutezza. In tabarchino con il termine cascà si intende sia la pietanza che la cuscusseria, sorta di pentola di forma leggermente sferica forata e in terracotta. Ebbene quasi a testimonianza della frequente pratica che gli isolani hanno con questo cibo, per una persona che ha la testa molto grossa dicono appunto u l’ha tésta cumme’ n cascà.
Un’altra originalissima pietanza della cucina tabarchina, una minestra cremosa a base di fave secche, la bóbba, annoverata tra i piatti storici e prelibati della gastronomia isolana, è entrata a buon diritto in diverse locuzioni tabarchine. “Ciütóstu che bóbba avansa crépi pansa” (piut- tosto che far restare la bóbba che crepi la pan- cia) recita una di queste proposizioni, che tra l’altro rimarca un concetto molto caro ai car- lofortini: evitare assolutamente qualsiasi spre- co ed in particolare quelli alimentari. Ci sono poi espressioni sulla bóbba che ci riportano indietro, in un mondo semplice e antico che purtroppo ormai è svanito. Come, “cusse ti gh’è a bóbba in sciû fögu”? (cos’hai la bóbba sul fuo- co?), frase sinonimica di “che fretta hai” che veniva proferita nel corso di un occasionale incontro per la strada tra comari, quando una di loro faceva intendere di lasciare la conversazione. O anche vanni bellu in cà ch’a mamma a l’ha fetu a bóbba (bambino vai a casa che la mamma ha cotto la bóbba) espressione con la quale si invitavano, senza troppi raggiri, i bambini a togliersi di mezzo. Non mancano consigli gastronomici nella paremiologia tabarchina. Gh’ö ciû dróghe ch’a tratüga (ci vogliono più spezie che per la tartaruga) per esempio. La tartaruga che sicuramente dai primi coloni veniva cucinata e mangiata ha bisogno di abbondanti aromi per acquistare un po’ di sapore. Da qui il detto che si dice quando per compiere una qualsiasi azione occorrono molti preparativi, ottenendo dei risultati che non sempre valgono o giustificano l’impegno profuso.
Mangiare bene piace a tutti ma a volte è costoso e non tutti i cibi ne motivano la spesa. Ecco quindi un suggerimento. “Âguste e granci asè spàiza e pócu mangi” (aragoste e granchi spendi assai ma poco mangi) perché i crostacei sono buoni ma costosi tra l’altro buona parte del loro peso è dovuto al carapace, ammonisce il detto. Le pietanze sono utilizzate anche per esprimere compiacenza oppure disappunto. Mangiò raiö (mangiare ravioli) e Culò paste cua crèma (mangiare paste con la crema) sono due locuzioni che hanno il medesimo significato: provare soddisfazione quando ad un antagonista, ad un rivale è anda- to qualcosa di storto, soprattutto se riguarda il motivo dell’avversione. Il disagio e il rincresci- mento viene manifestato attraverso avài a faccia stiò cumme’n curzéttu (avere il viso stiracchiato come un curzéttu).
I curzétti sono una tipica pasta fatta in casa simile alle “orecchiette” che le brave massaie confezionano “stirandole” con il pollice pezzo per pezzo. Con questa locuzione si indica l’espressione tesa e un po’ nervosa che assume il viso di chi sa dentro di sé di meritare i rimproveri o le accuse che in quel momento gli vengono rivolti, oppure di chi è stato col- to nel fatto nel compimento di un’azione poco lodevole.
Prima di concludere questo brevissimo e incompleto florilegio sulle originali espressioni degli isolani derivanti dalle loro abitudini alimentari, ecco velocemente alcuni motti: cruò a stissa (letteralmente cascare la goccia) che ha il significato di avere l’acquolina in bocca, a l’è égua du lesciassu (è acqua del ranno) per vino non buono, u l’è fattu cumme a lescìa (è insipido come la liscivia) per cibo insipido, che non sa di nulla. E ancora, pé cunusce ’na persuña bezögna mangioghe na sorma de só insemme per conoscere una persona (a fondo) bisogna mangiarci assieme una salma di sale, o il comunissimo sun fregügge càite da tóa, sono bricciole cadute dal tavolo, per sottolineare che certi commenti o giudizi sono stati “raccolti” nell’ambito familiare. Un ultimo consiglio tèsta de crova, cua de mueña e legnu de figu nu se pö invitò ’n’amigu (testa di capra, coda di murena e legno di fico non si può invitare un amico). E’ un invito a trattare con riguardo i propri ospiti perché come ammonisce il proverbio nella testa di capra non c’è granché da mangiare, la coda della morena è fatta di sole spine e il legno del fico non è adatto a fare la brace per cuocere il cibo. Gli ospiti si devono accogliere con affetto e amicizia e con tutte le cure e attenzioni.
Nicolo Capriata
Nicolo Capriata, carlofortino, cultore e studioso della storia, tradizione e cultura tabarchine ma soprattutto amico di Pegli e dei pegliesi, purtroppo ci ha lasciati il 10 settembre scorso. Con lui, come Circolo Culturale Sopranzi, ma soprattutto come singole persone, avevamo intessuto rapporti di sincera amicizia e stretta collaborazione. Numerosi i suoi interventi ai congressi ed eventi, riguardanti la tabarchinità, ma non solo, svoltesi a Pegli, specie per le “Giornate Storiche Pegliesi”. E’ da quella tenutasi nel 2018, dedicata alla Gastronomia tabarchina che abbiamo estrapolato l’intervento che segue.
Pubblicheremo spesso testi di Nicolo o articoli che lo riguardano, è il nostro modo per dirgli che tutto ciò che ha fatto per la cultura tabarchina, e i rapporti tra le nostre comunità, sono tasselli preziosi, valori, esempi che ci arricchiscono e ci indicano la strada su come fare divulgazione, con serietà e umiltà, come lui non ha mai messo di insegnare.
La redazione de IL PONENTINO
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