Comme innamoase de in paise, di so’ paisen e da so’ stoia (incontro di un pegliese con i tabarchini)
–Di Enzo Dagnino–
Per introdurre o raccontare della cittadina di Carloforte (ù Pàize come lo chiamano i Carlofortini) e della sua isola (uìsa) di San Pietro vorrei iniziare da quella che è stata la mia esperienza personale.
Come molti ero a conoscenza di una enclave che viveva in terra di sardegna e dove era parlato il genovese e sempre come moltissimi, genovesi e non, non mi ero mai posto il problema di conoscerne storia e motivazioni.
Eravamo nel 2001, un sabato mattina, e leggendo la rivista mensile del Touring Club sono stato incuriosito da un articolo su Carloforte dove, oltre alla attrattive paesaggistiche, veniva descritta un po’ della controversa storia che è stata vissuta dai tabarchini. Come è mia abitudine, poca riflessione e tanto slancio, ho preso riferimento di due hotel e ho prenotato sia camera che traghetto, logicamente senza chiedere nulla a mia moglie ma ponendola davanti al fatto compiuto e dire no significava rimetterci la caparra (sèmmu zèneixi o no).
Facendola breve, siamo sbarcati nel porto di Carloforte e il nostro primo incontro è stato con dei bimbi che giocavano e tra cui c’era una bimbetta di quattro o cinque anni con un braccio al collo e mia moglie prontamente le dice “piccola cosa ti sei fatta?” e lei altrettanto prontamente le risponde “ehh … màu sun ruttu”. Queste parole sono bastate, dette da una bimba, a farci aprire il cuore a un mondo nuovo, ad incontrare e voler conoscere una realtà che solo vivendola con i tabarchini può riappacificarci con l’amore per le tradizioni e per la propria storia (bella o brutta che sia stata) che in questa terra si respira.
Da quel primo viaggio ne sono seguiti molti e ogni volta mi hanno portato conoscenze e amicizie che mai avrei pensato di vivere perché leggendone e ascoltandone la storia e le vicissitudini si resta stupiti di come questo popolo (perché questo è un popolo con una sua identità ben precisa) sia riuscito a mantenere inalterato il suo modo di vivere e le sua tradizioni nonostante le avventure che ha vissuto.
Non sto a fare tutta la storia che ha vissuto dalla partenza da pegli nel 1542 sino all’insediamento in Sardegna nelle isole di San Pietro e Sant’Antioco perché altri ne hanno parlato e ne parleranno abbondantemente anche in occasione degli incontri per il riconoscimento UNESCO di questa “epopea” ma vorrei evidenziare alcuni fatti che dimostrano l’unicità di questo popolo.
Sicuramente hanno conservato nel loro DNA quel qualcosa di ligure che è dovuto all’ambiente, aspro e duro da lavorare e conquistare, ma che gli ha permesso di superare tutte le traversie che hanno incontrato.
Vorrei solo ricordare, perché questa è una cosa di cui poco si parla, quello che hanno rappresentato i tabarchini nello sviluppo sociale a cavallo tra l’ottocento e il novecento per quello che concerne i diritti dei lavoratori in Sardegna. Infatti a Carloforte sono nate e cresciute le prime Società Operaie di Mutuo Soccorso; ad esempio nel 1907 (prima in Italia) è stata costituita la Società delle Operaie Cattoliche di Sant’Anna composta da sole donne occupate nella lavorazione del tonno (inscatolamento).
Nel pensiero comune si legano, solitamente, i tabarchini alla pesca del corallo e del tonno per passare poi alla saline ma si parla molto poco di cosa hanno rappresentato le miniere del Sulcis nell’economia e nella vita di queste genti.
Mancando strade e mezzi per il trasporto del minerale via terra le società minerarie caricavano il materiale, dopo la sua estrazione, sulle “bilancelle” (piccole-medie imbarcazioni costiere molto simili al nostro leudo) per stivarlo a Carloforte e imbarcarlo poi sui bastimenti a vapore).
Si trattava di minerale di piombo chiamato “galanza”per cui i marinai addetti al suo trasporto erano detti “galanzieri”; si consideri che nel 1869 si arrivò al trasporto di oltre 800.000 quintali di minerale che veniva imbarcato e poi sbarcato, a spalla, in coffe da 40-80 Kg. I galanzieri venivano pagati a tonnellata: nel 1870 mediamente 6,25 lire a tonnellata da dividere in 11 parti, per un equipaggio di sette uomini, di cui 3,5 lire all’armatore, 1,5 al proprietario del battello e il resto diviso tra i 6 marinai.
Era evidente che un simile lavoro, duro e mal retribuito, sfociasse nella nascita di movimenti di protesta che culminarono nella strage di Buggerru dove alcuni manifestanti furono uccisi dalle forza dell’ordine.
In quegli anni si distinse la figura di Giuseppe Cavallera che fece nascere a Carloforte il Movimento Socialista in difesa dei Lavoratori. I Carlofortini per riconoscenza gli hanno dedicato il teatro del paese e lo hanno mantenuto integro nelle strutture e arredamenti originali.
Con la fine dell’attività estrattiva nel Sulcis, con la riduzione della pesca e lavorazione del tonno, con la chiusura delle saline il tabarchino non si è arreso a piangersi addosso ma rimboccandosi le maniche ha intrapreso la via a lui più familiare diventando un navigante famoso in tutto il mondo e facendo sorgere a Carloforte,un comune di 6.000 anima e proprio negli ex magazzini della galanza, uno dei maggiori Istituti Nautici d’Italia.
E’ doveroso ricordare come, invece, i Calasettani si siano dedicati maggiormente all’agricoltura ed in particolare alla viticoltura coltivando e vinificando il Carignano. A metà ottocento Vittorio Angius scriveva “L e vigne sono 150, ed in esse sono piantate 1.500.00 viti, che nell’anno producono 1.000.000 di litri di vini eccellenti …. Che sostengosi con li migliori del Campidano”.