Quasi una repubblica marinara- 1850/1930: l’epoca d’oro di Carloforte
[Di Niocolo Capriata]
In ogni epoca ed in ogni nazione ci sono state etnie e comunità che si riconoscono e si identificano, o meglio ancora, si distinguono per il territorio e le peculiarità sulle quali hanno sviluppato la propria cultura e modellato la loro esistenza.
Cosi talune si sono cimentate e realizzate con la montagna, altre hanno intessuto sui pascoli dei monti e della collina storie e sostentamenti, altre ancora si sono misurate con le piene dei fiumi e la pianura ed altre infine hanno affrontato le insidie e le incognite del mare.
E la comunità tabarchina, (che poi, nella sua stensione, il termine abbraccia tutti i carlofortini) sul mare ha costruito con fatica e con dolore, con perizia e coraggio, l’essenza della sua splendida e rinomata civiltà.
Fin dal suo nascere l’alacre colonia carolina cercò e trasse dal mare mezzi e fini per la sua stessa esistenza.
Da principio esercitò la pesca del corallo nei banchi, allora “vergini”, del mare prospicente l’isola, alternata a quella delle aragoste, dei pesci e dei molluschi che quei fondali offrivano copiosamente.
Non molto tempo dopo, da quelle prime operose attività, gli intraprendenti carolini si dedicarono alla pesca del tonno, fino ad allora praticata in quelle acque da forestieri, diventando ben presto degli abili tonnarotti e, non pochi di loro, degli esperti rais.
Intanto la bisogna della tonnara e il commercio del sale (ad un anno dalla colonizzazione le saline erano già in produzione) favorirono i primi traffici marittimi soprattutto con la Svezia, dove il sale veniva esportato. E con la spagna per il commercio dei libani necessari per la tonnara.
Nella rada di Carloforte, posta a riparo del vento di maestrale, vi trovavano inoltre sempre più frequentemente rifugio, quando il mare si infuriava, bastimenti e battelli che dai porti del Mediterraneo centrali ed orientali facevano rotta con carichi vari verso le coste africane, francesi e spagnole.
Tant’ è che a diciotto anni dalla sua fondazione Carloforte era già sede di 2 viceconsolati, quello di Svezia e di Francia a ui si aggiunsero nel 1756 quello del Regno Unito e del Regno di Napoli.
In vent’anni la dinamica comunità Carolina stava già fruttuosamente trovando sul mare la sua strada.
Ancor di più negli che seguirono proliferarono le attività marinare e con esse prosperarono anche quelle, come oggi si dice, collaterali.
Sorsero i primi cantieri navali, nuovo impulso ebbe la pesca del tonno, qualche bilancella carolina comincio a sviluppare il commercio ed il traffico con le coste sarde; accanto alle “arti” dei mastri d’ascia e dei marinai fiorirono i mestieri di carpentiere, calafato, cordaio.
Erano i primi bagliori, o meglio le prime avvisaglie di quella che da lì a poco sarebbe diventata la splendente e rinomata, anche fuori dai confini nazionali, marineria carolina.
Cosi in un crescendo sempre più frenetico e fecondo si arriva ai primi decenni dell’ ottocento, allorquando il porto di Carloforte era diventato lo scalo “obbligato” ; vi facevano sosta per approvvigionarsi e per sottoporsi a riparazione tanti dei velieri che trafficavano nel Mediterraneo occidentale.
Ma soprattutto intorno ala 1850, quando ebbe inizio lo sfruttamento dei giacimenti metalliferi dell’iglesiente e i dirigenti delle compagnie minerarie, allora francesi belgi e inglesi, decisero di far convogliare il prodotto grezzo a Carloforte, per poi essere trasportato i “continente” che il porto e la marineria di Carloforte decollarono definitivamente.
E quella che va dal 1850 fin pressappoco al 1920-1930 fu un un’epoca d’oro per Carloforte.
Il porto divenne in brevissimo tempo, dopo quello di Cagliari, a cui contese a lungo la palma del primato, il più importante della Sardegna.
Dalla battigia gli scavi di bovi, bilancelle, tartane, paranzelle, briks, sconners, golette e brigantini impedivano la vista verso la costa dell’isola madre.
Alberi e pennoni, stralli e sartie s’incrociavano in un gioco mutevole e bizzarro, rendendo visibile quella porzione di cielo, appena un po’ più sopra della linea dell’orizzonte, come attraverso un fine e fitto setaccio dalle maglie irregolari.
Per entrare e uscire dal poro i bastimenti dovevano districarsi tra le murate e bompressi in uno slalom che non concedeva alla manovra alcun margine di errore.
I pontili, nei pressi della riva erano simili a formicai: si caricava e si stivava in un ritmo sostenuto e incessante ogni genere di marce: dalla “galanza” al carbone, necessario per gli impianti di estrazione del minerale, dai cereali ai laterizi, dai barili di tonno salato alle aragoste, dal sale ai formaggi, all’ olio, al vino.
Le navi provenivano dai più disparati porti europei e altrettanto varia era la loro destinazione e nazionalità: quattordici erano i paesi che avevano i loro rappresentati consolari a Carloforte.
Parte di questo intenso traffico era svolto da “padrini” e marinai carlofortini che con fervore e furore, quasi come in una gara, rivaleggiavano tra loro in abilità ardimento e intraprendenza.
Già esperti di piccolo cabotaggio, fino allora praticato verso i porti sardi di Alghero, Bosa, Portotorres e Cagliari, a cui sia aggiunse il traffico verso le coste dell’iglesiente per il trasporto del minerale, molto carolini ora infatti con le loro vele solcavano sicuri il Mediterraneo dirigendo le loro prue verso la Liguria, la Toscana, la Corsica, il Nord africa, la Sicilia e Malta.
In seguito, ma molto tempo dopo, i carlofortini (e tanti sono ancora oggi) andranno a misurarsi con i flutti delle vastità oceaniche.
Ma se rinomate erano (e tutt’ora sono) le loro virtù marinaresche, non meno famosa era la loro maestria nella costruzione delle barche.
Le bilancelle per il piccolo cabotaggio e le barche per la pesca da tempo venivano costruite a Carloforte.
Ma le mutate esigenze dei tempi e del traffico marittimo, che richiedeva natanti sempre piu campenti e veloci, diete nuovo impulso e fioritura alla cantieristica navale che raggiunse il suo apogeo all’inizio del secolo.
Le abili e sapienti mani dei maestri d’ascia d’allora diedero sagoma alle ordinate e al fasciame di barche sempre più grandi, eleganti, stabili.
Un numero enorme di bilancelle da 50/60 tonnellate di stazza fu varato dai cantieri carolini.
A commissionarle non erano solo gli armatori locali ma anche quelli sardi e della penisola.
Per molti lustri inoltre in questi cantieri prese forma gran parte del naviglio peschereccio sardo.
Ardua se non impossibile impresa sarebbe elencare le tante barche modellate dai maestri d’ascia carolini.
Va tuttavia citato il “Trento” una bombarda da 100 tonnellate con due rande e due quadri costruita ne cantiere di Pasquale Biggio alla fine della prima guerra mondiale che, a detta di alcuni maestri d’ascia, ultimi esperti di una stirpe gloriosa, fu la barca più grande costruita a Carloforte.
Marinai e costruttori, i carlofortini avevano ormai conquistato il mare e il mare aveva conquistato i carlofortini per quel richiamo semore presente e pressante che aveva esercitato su di loro.
E sul mare i carlofortini hanno scritto, negli anni, tante pagine belle di onore e gloria e anche purtroppo tragiche e luttuose.
Ancora a adesso la pericolose e dura vita del mare è per tanti carlofortini la fonte dalla quale alimentano sogni e speranze.
©Nicolo Capriata ( 1989)
foto principale: Panorama di Carloforte-Cartolina originale- Viaggiata 1914-su concessione di Salvatore Borghero