1

I racconti del Blue Avana- (2) Il boss

La “Concessionari di Automobili Pubbliche – Società Cooperativa a Responsabilità limitata“, cioè la società che raggruppa buona parte dei tassisti genovesi, ha compiuto nel 2013 i cento anni di attività. Questi, che pubblicheremo a puntate, seguendo la sequenza dei capitoli del libro Blue Avana. 100 anni di taxi a Genova di Pier Guido Quartero, pubblicato con l’editore Liberodiscrivere nel 2013, sono gli episodi più curiosi e quelli più significativi narratici dai tassisti genovesi, in attività o in pensione. Dalla calda vita della Via Pré degli anni ’50 alle corse in ospedale per salvare vite umane, dagli anni di piombo ai clienti strambi, taccagni o fin troppo generosi, dai personaggi del calcio e dello spettacolo alle lotte sindacali. Il tutto narrato attraverso le chiacchiere di una combriccola di amiconi, creati ad arte dall’autore, che perdono un po’ del loro tempo al Blue Avana: un locale come non ce ne sono più…

2_Il boss

Per esempio c’è questo Paolo, che ormai avrà un’ottantina d’anni e ha smesso di fare le corse già da un pezzo, che si ricorda un sacco di storie degli anni sessanta, quando in Via Pré c’era la mala vera, quella con nomi come Don Vincenzo, oppure Tubetiello.
L’altra sera l’ho trovato che prendeva un caffè hag. Dice che di notti sveglio ne ha fatte tante e non ne vuole fare più, così una tazzina di caffè, per digerire, se la beve, ma vuole il decaffeinato, che lo lascia dormire meglio.
Va beh, lui stava bevendosi questo caffè e intanto si guardava in-torno per vedere se c’era qualcuno che avesse voglia di fare due chiacchiere, tanto per far venire l’ora, e io gli sono andato vicino e ho chiesto a Aldo, che è il barista, di darmi un amaro, e poi mi sono girato verso di lui e gli ho domandato, rispettosamente – perché Paolo è un uomo di ottant’anni e ne ha viste tante e deve essere trattato con rispetto – se per caso gli faceva piacere di bere anche lui un amaro insieme a me.
Paolo ci ha pensato un po’, mentre finiva di sorbirsi il suo caffè. C’era un sacco di tempo, e quando c’è tempo Paolo è più conten-to, perché alla sua età non gli piace fare le cose in fretta, e quando ha posato la tazzina ha fatto una smorfia con la bocca, che era un po’ un sorriso, e ha assentito con la testa.
– Camatti – ha detto ad Aldo, anche se non era necessario, perché tutti, al Blue Avana, che è il nome di questo bar sotto casa mia, lo sanno che Paolo, quando prende l’amaro, vuole il Camatti e che, se prende la correzione nel caffè, ci mette la Nardini (quella bianca).
Così, quando ha avuto il suo bicchiere posato davanti, sulla formi-ca verde del tavolino, mi ha guardato negli occhi e mi ha detto:
– Sei stato gentile a pagarmi l’amaro.
– Non c’è di che – ho risposto io – Per me è un onore poterti offri-re da bere.
Lui allora ha tirato un sospiro: – Eh già. Tu mi offri un amaro e mi parli di onore… Mi fai venire in mente altri tempi, quando in certi locali vicino al porto, che avevano nomi esotici, come il Trocadero, scorrevano whisky e champagne e giravano dei veri duri, che però sapevano seguire le regole dell’onore…

Io ho capito che stava per raccontarmene una buona e, siccome mi piace quando uno sa raccontare delle belle storie, ho aperto le orecchie.
-…C’era questo tipo, che veniva da Napoli. Uno che girava sempre vestito come un gagà, con la lobbia in testa, gli occhiali scuri tipo Ray bands e sempre con la sua Marlboro in bocca. Aveva un locale vicino a Dinegro dove andavano gli americani della sesta flotta e soprattutto i norvegesi delle petroliere, che bevevano come se non avessero un fondo, perché a casa loro non si poteva e quando venivano qui era come se fossero nel paese del bengodi, che poi se prendevano il taxi i norvegesi era dura riuscire a farli pagare, mentre gli americani, nei punti di raccolta, c’avevano i loro GMan che li facevano rigare diritto e pagavano come banche.

Naturalmente, a questo bel tipo di napoletano che era proprietario di quel locale che ti dicevo, le donne non gli mancavano e puoi stare sicuro che gli piacevano, ma non erano sempre del genere signora, non so se mi capisci…
Io ho annuito, perché una mezza idea sul tipo di donne che pote-vano esserci allora in quei locali me la sono fatta, soprattutto ve-dendo i vecchi film con Jean Gabin. E allora lui ricomincia:
– Beh. Questo qua girava sempre in taxi e lo conoscevamo bene tutti ed era un gran signore, nel senso che non lesinava sulle man-ce, soprattutto quando voleva far colpo con qualche sgarzola nuo-va. Una volta però me la sono vista brutta, perché signore era si-gnore, ma la sua pistola dietro ce l’aveva sempre, non so se mi spiego…
Io ho annuito di nuovo, sempre per via di Jean Gabin. E così lui va avanti:
– Una sera ero al parcheggio lì, vicino al suo bar. Era estate, ricor-do, e faceva un bel caldo. Saranno state le due e mi arriva la chia-mata di andarlo a prendere. Io ero contento, perché quel viaggio lì sapevo che voleva dire grano e sono andato difilato a mettermi davanti alla porta e quando lui è uscito con una bella bruna gli ho anche aperto la portiera a tutti e due, e lui mi ha salutato come un amico e tutto procedeva per il meglio. Solo che la donna era una piaga. Non so se hai presente quelle brune coi capelli lunghi appe-na arricciati, che si mettono quei vestiti tutti a sbuffi, un po’ rossi e un po’ neri, con la scollatura a V. Tipo spagnolo, insomma. E le piaceva fare la capricciosa: ha subito cominciato a dire che andavo piano e che lei doveva arrivare a casa presto. Sai come sono le donne, che quando escono dai locali gli viene sempre in mente dopo che devono fare la pipì…

E io lì ho annuito con convinzione, perché questa storia della pipì non avevo bisogno di Jean Gabin, per conoscerla. Infatti, anche con la Nina, che è la mia ragazza, è sempre la stessa dannata storia.
– … e allora lei continuava a rompere le palle e lui, il napoletano voglio dire, ha cominciato a non reggerla più, ma siccome non voleva finire la notte in bianco ed era tardi per trovarsene un’altra, e poi questa qua era una piaga ma era proprio una bellezza, in-somma lui ha cominciato a giramela addosso a me: “Non puoi andare più svelto?” Ha cominciato a dirmi, e poi a un certo punto, visto che lei non la smetteva: “Taglia su di qua”. Voleva che pren-dessi una salita in senso vietato e io gli ho dovuto dire di no, per-ché ti garantisco che era lunga e brutta e c’era il rischio di una bot-ta, ma soprattutto era quasi sicuro che se incontravamo qualcuno non c’era spazio per passare e alla fine diventava più lunga passare di lì che fare il giro normale. E lui ha insistito e io non gli ho dato retta, e gli ho anche detto che se la donna doveva pisciare poteva-mo fermarci in un angolo e lei poteva accucciarsi dietro alla mac-china. Ma lei ha dato in escandescenze e ha cominciato a dirgli che lui non era neanche capace di farsi rispettare da me. Capisci che questo ha complicato le cose, perché il napoletano queste cose non poteva sentirsele dire senza reagire. Così le ha mollato una sberla e le ha detto che la piantasse, e lei si è rannicchiata nel suo angolo e si è messa a piagnucolare e siamo andati fino sotto alla casa senza che volasse più una sola parola.

– E quando siete arrivati? – ho domandato io.
– Lì è stato dove me la sono vista brutta davvero, perché questo qua non l’aveva digerita e voleva rifarsi con me. Così, quando sono sceso e gli ho aperto la portiera, perché se non facevo così si arrabbiava ancora di più, è uscito fuori come un ciclone e mi ha preso per il bavero, anche se pesava la metà di me e ha cominciato a dirmi che me la faceva pagare lui a me, la corsa. Io allora, che non sapevo più cosa fare, gli ho mollato una gran testata in mezzo alla faccia e l’ho lasciato intronato e sono saltato sulla macchina e me la sono svignata più in fretta che potevo, per via che se quello tirava fuori la pistola erano guai…
– E è finita così?
– No. Perché, come ti ho detto all’inizio, quella era mala, ma non erano balordi come adesso. Un senso delle cose ce l’avevano. In-somma. I miei colleghi, quelli che avevano più confidenza, gli sono capitati nel locale come per caso, una di quelle sere, nell’ora in cui c’era ancora poca gente, e lui ha capito e dopo un po’ è arrivato al tavolo e si è seduto e hanno parlato. E lui ha riconosciuto che tutto sommato io avevo avuto le mie ragioni e che chiedeva solo che della cosa non si sapesse in giro e che io cambiassi parcheggio per qualche mese.
– E non lo hai più visto?
– Due o tre anni dopo mi è capitato di caricarlo di nuovo, e ha fatto finta di non conoscermi e io mi sono adeguato; ma quando è sceso, perché stavolta la portiera non gliel’avevo aperta, è venuto dal finestrino e mi ha dato una mancia regale. “Così regoliamo anche l’altra corsa” ha detto, e se ne è andato senza darmi neanche il tempo di ringraziarlo.Capitoli già pubblicati:

I racconti del Blue AvanaCapitoli già pubblicati

  1. BLUE AVANA, cento anni di taxi a Genova