Dal 1790 ai giorni nostri, le storie parallele di due famiglie separate dal destino. Un naufragio e un delitto daranno vita a un cerchio che si chiuderà solo dopo tanti anni e molte vite.
Una linea sottile traccia il confine tra sogno e realtà, mentre un filo invisibile lega due terre: Carloforte e Pegli
2.Il figlio del mare
Antonello Rivano
Pietro aveva il viso brunito dal sole, segnato dai giorni passati per il mare e ricoperto da una barba candida. I capelli dello stesso colore, un tempo biondi, lunghi sin quasi sulle spalle e leggermente arricciati, uscivano dall’eterno berretto di lana calcato sin sulla fronte. Seppure avanti con gli anni il suo fisico aveva conservato la sua prestanza, alto e robusto con un portamento che lo faceva sembrare un antico guerriero; non sembrava neppure appartenere alla stessa gente che popolava l’isola, e probabilmente così era.
Il suo rapporto con l’isola era sempre stato conflittuale: tanta voglia di andare via e allo stesso tempo la voglia irrefrenabile di farvi ritorno.
Raccontavano che era stato trovato sulla riva del mare da un pescatore del posto, un fagottino che faceva sentire la sua voce al di sopra dello stridio dei gabbiani, avvolto in una coperta di lana, sotto un vecchio gozzo capovolto. Non si era mai saputo di chi fosse figlio: per gli isolani era “Il figlio del mare”.
All’anagrafe, lo chiamarono come l’apostolo pescatore che la leggenda voleva esser naufragato, dopo una tempesta, su quel pezzetto di terra in mezzo al mare; il santo che all’isola dava il nome e ne era patrono. Così ebbe un nome che era anche il suo destino: Pietro, come l’isola e il pescatore che la proteggeva. Sul mare, dunque, avrebbe passato gran parte della sua vita.
Dall’uomo che lo aveva trovato, e dalla moglie di questi era stato adottato e allevato con infinito amore, unico figlio e come tale considerato un dono del cielo, o meglio del mare, la grande distesa di acqua salata che dava a loro di che vivere e li deliziava con la sua selvaggia bellezza.
Abitavano in una piccola, ma decorosa e piacevole, costruzione, bianca di calce e con il tetto a spiovente unico, la porta e le due finestre di un verde acceso che s’intonava con la vegetazione che la circondava. Una delle case che i carlofortini avevano costruito negli appezzamenti fuori dal paese e che si affacciava su una spiaggetta dove un pontile di legno faceva da attracco per la barca da pesca. Sul retro, un bel pezzo di terreno forniva alla famiglia i prodotti della terra: i coloni liguri avevano sempre dato una grande importanza al terreno per coltivare. In effetti, l’isola
di San Pietro poteva sembrare una riviera ligure in miniatura, con il paese sul mare, le colline alle spalle e terreni che erano stati suddivisi tra le varie famiglie.
L’infanzia di Pietro era stata un continuo immergersi nella natura incontaminata di quel posto: a pesca con il padre, l’orto che la madre gli aveva insegnato a coltivare, le lunghe passeggiate in mezzo alla macchia mediterranea. Amava l’isola, gioiello verde incastonato nell’azzurro di un mare che poteva assumere tutti i colori della vita: purpureo all’alba; smeraldo nelle giornate di bonaccia; grigio, e spruzzato dalla bianca spuma delle onde, quando era in burrasca; oro puro al tramonto; nero e tenebroso nelle notti prive di luna.
Ma quell’amore non gli bastava, una smania lo divorava dentro, la voglia di solcare il mare nella sua interezza, conoscere terre lontane, altra gente, altri popoli, altre culture, seguendo il destino scritto nel suo nome. Amava leggere di avventure e di antiche civiltà, era attratto da tutto quello che era diverso, insolito e misterioso. Quando ebbe compiuto sedici anni, si mise sulle spalle un sacco con pochi indumenti dentro e partì. A nulla valsero le lacrime della madre e i discorsi del padre: lui doveva andare verso il suo domani che non poteva essere lì. Così s’imbarcò come mozzo su una nave da carico che andava verso l’oceano Pacifico, quando era poco più di un bambino, ma già con una corporatura che metteva soggezione anche agli uomini fatti.
Così crebbe, visse, conobbe il mondo e l’amore, lontano dalla sua isola. Ebbe tante donne Pietro, come ci s’immagina sia per ogni marinaio, donne di ogni etnia e colore, ma il suo unico grande amore fu una ragazza polinesiana il cui nome, Hani, significava “la ragazza che accudisce al sole”; e del sole aveva preso il calore e la bellezza, un corpo flessuoso che aveva un che di regale, un viso sempre illuminato dal sorriso, splendidi occhi neri come la notte con riflessi che sembravano stelle.
Un grande amore consumato tra palmeti e in riva al mare, un grande amore che risvegliò la gelosia di un giovane del villaggio, una discussione tra due uomini innamorati della stessa donna che degenerò in rissa. Pietro era un gigante biondo, i lunghi capelli e la barba folta lo facevano sembrare una specie di guerriero nordico; anche l’altro non era da meno, ma il pugno che lo colse alla tempia fu fatale: cadde per non più rialzarsi.
Venne riconosciuta la legittima difesa; i presenti testimoniarono che era stata la vittima a iniziare la lite e a colpire per prima, ma a Pietro non poteva bastare. Aveva ucciso un uomo, nulla poteva valere più della vita di una persona. Quell’amore sporcato dal sangue finì, e il rimorso per l’omicidio, seppur involontario, lo accompagnò per tutta la vita. Tonio fu tra quelli che testimoniarono a favore del carlofortino, era il nostromo della nave su cui entrambi erano imbarcati. Fu da subito amicizia, i due divennero inseparabili e finito quel viaggio, durante il quale il Tonio apprese della morte della moglie, tornarono entrambi a Pegli. Del resto “il figlio del mare”non aveva più altra famiglia se non quella di Tonio. Cosi come era accaduto a Tonio per la moglie, infatti, anche Pietro era stato colto dalla notizia della morte dei genitori mentre si trovava in terre lontane. La madre era deceduta da pochi giorni quando il marito l’aveva seguita: non aveva retto alla solitudine e al dolore per la scomparsa della donna tanto amata.
. Tonio doveva rientrare per accudire i due figli, Nicola e Jolanda, rimasti soli, e anche Pietro, il marinaio, l’avventuriero, era stanco dei lunghi mesi di navigazione.
Entrambi avevano trovato nell’altro un punto fermo su cui fare affidamento. Pietro sarebbe diventato il marinaio della “Speranza” e al tempo stesso un membro della famiglia, in un certo senso era stato ancora una volta adottato.
***
Pietro amava cucinare, Tonio e i ragazzi lo lasciavano fare volentieri. Preparava spesso una zuppa di pesce che ti riconciliava con la vita, -alla carlofortina- diceva lui: capponi e scorfani che venivano uniti a nozze con polpi o seppie, contornati da bocconi e arselle in un sugo in cui aglio, prezzemolo, pomodori e olive si armonizzavano con un accenno di peperoncino. Durante quei pranzi Pietro abbondava con il vino.
Il vino scioglieva la lingua e lui raccontava. Seduti attorno al tavolo Tonio, Nicola e Jolanda restavano in silenzio ad ascoltare la storia di quell’amore finito male e di altre, belle o tristi che fossero. Solcando i mari aveva potuto conoscere di persona molte cose di cui aveva letto, e vivere avventure simili a quelle dei suoi eroi. Raccontava di uragani apocalittici, pirati e donne affascinanti ma pericolose, mille ostacoli che aveva affrontato con coraggio e sprezzo del pericolo. Dotato di una dialettica e una fantasia non comuni, coinvolgeva Tonio e i ragazzi nelle sue avventure; insieme a lui si ritrovavano a solcare quei mari, a combattere pirati e conoscere splendide ragazze dalla pelle color ebano.
Era difficile capire dove finiva la realtà e iniziava la fantasia. Un giorno, per meglio detergersi il sudore, si era tolto il berretto di lana che aveva sempre in testa, estate e inverno, sotto l’acqua o sotto il sole più cocente. Solo allora Nicola e Jolanda poterono vedere la cicatrice, una sottile linea chiara che gli attraversava tutta la fronte.
Pietro alzò gli occhi, verdi come l’acqua di quel mare che era stato tutta la sua vita, e incontrò il loro sguardo curioso.
–Pirati– disse quasi sussurrando –avevano abbordato la nave sulla quale ero imbarcato come mozzo, uno dei miei primi imbarchi, stavo lottando contro due di loro e un altro mi ha preso alle spalle. Una volta immobilizzato mi hanno colpito sulla fronte con il piatto di una lama.
I due rimasero affascinati da quell’ennesimo racconto, Tonio dovette invece a stento trattenere il sorriso che stava affiorando sulle sue labbra; sapeva benissimo che quella cicatrice il suo amico se l’era procurata in ben altro modo: una notte in cui aveva alzato un po’ troppo il gomito era rientrato sulla sua barca da pesca per dormirci, ma si era dimenticato che il boccaporto che portava alla cuccetta era ben più basso di lui e vi aveva sbattuto contro la fronte, con l’impeto di chi non vedeva l’ora di potersi mettere in orizzontale.
Pietro di solito concludeva i sui racconti con tanto di filosofia, forse ispirato dal buon vino.
-Un’isola– disse un giorno – Ogni uomo è un’isola, e la vita è il mare che circonda quell‘isola e la unisce alle altre. Tutti siamo soli ma allo stesso tempo collegati agli altri, parti e porti di un unico mare.
Dopo una lunga pausa riprese – Un’isola, ogni uomo dovrebbe avere un’isola cui tornare, un posto in cui sentirsi in pace con se stesso, dove riporre i suoi segreti e i suoi dolori, ricordare le gioie e dare un senso all’ultimo suo viaggio. Voglio tornare a San Pietro, sapete un tempo ha avuto altri nomi. Gli antichi l’hanno chiamata prima Enosim, poi i greci Hyeracon, e i romani Accipitrum Insula. Tutti nomi che significano: Isola degli sparvieri. Io li ho visti volare, alti sopra le scogliere a picco sul mare, maestosi e liberi. Liberi come ogni uomo dovrebbe essere.
La prossima settima: Capitolo 3.Partenza
I testi tratti dal romanzo di Antonello Rivano “La forma della felicità” (ilmiolibro.it, 2018) pubblicati sul Ponentino possono non corrispondere totalmente con quelli del libro e sono frutto di una rielaborazione dello stesso autore.
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La copertina originale dell’opera è del pittore carlofortino Salvatore Rombi
Antonello Rivano
Redattore Capo ilponentino.it
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