LA LANTERNA – Rubrica a cura di Marco Maltesu
L’economia possibile
Uno dei temi resi evidenti dalla pandemia che ha attraversato il mondo, ancora prima della forte crisi economica esistente e successivamente della guerra in Ucraina e delle tante guerre attualmente esistenti nella nostra terra, è che è necessario creare un nuovo tipo di economia capace di ridurre le differenze fra i ricchi ed i poveri nella nostra società.
Le diseguaglianze stanno ormai creando distanze non solo incolmabili all’interno della società ma soprattutto situazioni di estrema povertà ed irreversibili condizioni di difficoltà sociale.
Questa economia è basata sugli squilibri al suo interno, non dobbiamo mai dimenticare che per esempio, per poter continuare ad acquistare le nostre magliette a 5€, ci deve essere in qualche parte del mondo qualcuno che produrrà queste magliette per pochi centesimi.
Una economia insomma che necessita dello sfruttamento del lavoro che può avvenire in qualsiasi parte del mondo (globalizzazione), possibilmente nelle nazioni più povere, quelle in cui le condizioni di sicurezza non esistono e possono essere tagliati tutti i costi dovuti alle più elementari misure di sicurezza e di tutela della salute e di rispetto della condizione umana.
È una realtà che non tocca solo gli adulti o gli anziani, ma anche molti giovani. È una società che dice a un giovane che deve inventarsi qualcosa da fare perché lavoro non ne esiste. Dire che se lo deve inventare da solo, implicitamente significa dire che il mondo va avanti anche senza il suo aiuto, il suo contributo, che lui è un escluso, In tanti Paesi, anche europei, la percentuale della disoccupazione giovanile sfiora il 40-50%, cosa significa che metà dei giovani di un Paese è inutile ai fini della sua economia? Vuol dire annichilire e annullare un’intera generazione.
Questo succede quando al centro di un sistema politico ed economico si pone il dio denaro e non la persona umana, è la “cultura del benessere”, che troppo spesso ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili al grido degli altri, «ci anestetizza e perdiamo la calma se il mercato offre qualcosa che non abbiamo ancora comprato, mentre tutte queste vite stroncate per mancanza di possibilità ci sembrano un mero spettacolo che non ci turba in alcun modo» (Papa Francesco Evangelii Gaudium 54).
Sul piano dell’economia di impresa, studiosi come Smith, Ferguson, Say, Marx e Weber hanno riflettuto sul modo in cui il mercato capitalistico poteva ridurre gli effetti perversi e distorcenti dell’economia manifatturiera, causa di un numero sempre maggiore di indigenti. Nella fine dell’ottocento, all’inizio del novecento, grazie ai loro studi, magnati americani come Rockfeller, Carnegie e Ford, cercarono di rendere compatibile l’obiettivo del profitto con una maggiore responsabilità sociale e ciò avveniva prevalentemente attraverso la creazione di fondazioni con scopo filantropico. La filantropia però fa dipendere il soddisfacimento dei bisogni o l’aiuto per le persone svantaggiate dal sentimento di compassione del filantropo ed è quindi, non solo non risolutiva, ma legata agli umori e possibilità del filantropo di turno e quindi scarsamente efficace.
Davanti a tutto questo ci si domanda se davvero questa situazione è inevitabile oppure si può immaginare un mondo diverso e più attento all’ambiente ed agli abitanti e le creature tutte che lo popolano retto da un funzionamento economico più umano ed umanizzante per l’ambiente.
Non è certo una idea originale, l’idea di una economia sociale di mercato ebbe la sua origine nell’ambiente culturale tedesco durante il periodo della Repubblica di Weimar, dopo la Prima guerra mondiale, grazie al contributo di L. von Mises, che nel 1919 pubblicò Nation, Staat und Wirtschaft. Il libro non ebbe molta fortuna, ma le idee in esso contenute furono successivamente rielaborate, dopo il fallimento dell’esperimento di Weimar e l’ascesa al potere del nazionalsocialismo, dalla scuola di Friburgo (ordoliberalismo). La sua idea basilare è che il libero mercato sia “non naturale” e come tale debba essere definito da una cornice istituzionale. Negli anni della ricostruzione in Germania, ha costituito il nucleo teorico della economia sociale di mercato (soziale Marktwirtschaft) che ispirò le politiche del ministro dell’Economia L. Erhard e del suo collaboratore A. Müller Armack per porre le basi del cosiddetto “miracolo economico tedesco”.
Dal secondo dopoguerra, l’idea dell’economia sociale di mercato si è spesso intrecciata con la dottrina sociale cristiana (dottrina sociale della Chiesa), sino a evidenziare come tema centrale, in epoca contemporanea, il concetto di sussidiarietà (Principio di sussidiarietà), inserito nel 2001 a livello costituzionale come principio regolatore dell’intervento statale tedesco.
Da sottolineare che l’economia sociale di mercato è il sistema economico dell’UE previsto dal Trattato di Lisbona.
Per economia sociale si intendono le attività economiche che rispettano i seguenti principi:
- Un obiettivo di servizio alla comunità o ai membri, piuttosto che la ricerca del profitto. L’obiettivo di un’impresa dell’economia sociale non è massimizzare i profitti ma creare posti di lavoro, provvedere alla formazione di persone poco qualificate, proteggere la natura, fornire servizi a livello locale, ecc.
- Autonomia gestionale. Le imprese dell’economia sociale non sono gestite da un azionista privato né dallo Stato.
- Gestione democratica e partecipativa. Il processo di controllo dell’azienda è democratico / ogni lavoratore partecipa alle decisioni.
- Le persone e il lavoro hanno la priorità sul capitale. La distribuzione degli utili è prevalentemente destinata all’oggetto sociale della società.
L’impresa sociale, quindi, è un ente privato che esercita in via stabile e principale un’attività di impresa di interesse generale, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, adottando modalità di gestione responsabili e trasparenti e favorendo il più ampio coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e degli altri stakeholders.
Un esempio in tal senso ci arriva dalle imprese che fanno parte del progetto di “Economia di comunione”, fondate da Chiara Lubich nel 1991, che non si limitano a destinare parte dei loro utili per aiutare chi è nel bisogno ma instaurano all’interno dell’azienda «rapporti leali e rispettosi, animati da sincero spirito di servizio e di collaborazione, nei confronti dei dipendenti, dei clienti, fornitori, pubblica amministrazione e anche verso i concorrenti oppure nel promuovere la collaborazione con le altre realtà aziendali e sociali presenti nel territorio.
È necessario insomma occuparsi della povertà, della disoccupazione, dello sfruttamento sui luoghi di lavoro, del ruolo delle donne nelle attività lavorative, del coinvolgimento dei giovani, dell’equilibrio tra Nord e Sud del mondo, del consumismo, della valorizzazione dei talenti e di molto altro ancora.
Non basta insomma una economia circolare, neanche una economia sociale, nemmeno una sostenibile e civile. L’economia per essere realmente sociale ed adatta a questo triste momento di allontanamento dell’uomo dal suo mondo, deve poter includere un riavvicinamento dell’uomo a sé stesso ed ai suoi simili in termini umani prima ancora che economici.
Marco Maltesu
Direttore di redazione ilponentino.it
LA LANTERNA – Rubrica a cura di Marco Maltesu
direttore de il PONENTINO