Possiamo dire che il mio lavoro di scrittore (dilettante, ma scrittore) ha prevalentemente due filoni: quello della storia genovese, che ho ricostruito attraverso una saga familiare raccontata in una diecina di romanzi storici, dalla fine dell’Alto Medio Evo al 1948; quello di Trekking a Genova, che propone un approccio alla città con percorsi orientati assai più alle periferie (geografiche e culturali) che al Centro, già oggetto del lavoro di molti altri; un terzo filone, volendo, è dato da una serie di romanzi gialli che furono oggetto dei miei primi tentativi di scrittura e che non ho mai pubblicato, se non per prova, in autoeditoria, agli inizi di questa mia nuova “carriera”.
Pier Guido Quartero
Massena
Salendo da Via XXV Aprile, quando si arriva in cima e si entra in Piazza D Ferrari, il primo o il secondo palazzo sulla destra è quello che per molti anni fu sede dal Banco di Roma. Dandoci un’occhiata meno distratta del solito, possiamo vedere una targa sulla quale si ricorda che durante l’assedio inglese del 1800 in quegli stessi locali ebbe stanza il quartier generale di Massena, il comandante delle truppe napoleoniche cui era affidata la difesa dell’ultimo presidio francese in terra italiana, dopo la sfortunata spedizione in Egitto del piccolo generale corso.
Massena, forse di origine italiana, posto che alle spalle di Chiavari esiste anche un paese chiamato Maxena, aveva comunque certamente succhiato insieme al latte della madre anche quello spirito guascone che è una caratteristica ricorrente dei francesi. Infatti, malgrado la difesa della città risultasse difficilissima, soprattutto per la mancanza di viveri per la truppa e per la popolazione, rifiutava di riconoscere la situazione e dichiarare la resa al nemico. Ne conseguì un periodo di grande difficoltà in cui non solo i soldati, ma anche i cittadini, morivano letteralmente di fame. Gatti, cani, topi e pipistrelli entrarono a far parte della dieta dei genovesi, e perfino le dame dell’aristocrazia furono viste arrampicarsi sulle colline alla ricerca di erbe commestibili, Gli stessi prigionieri austriaci, rinchiusi in darsena, giunsero a bollire scarpe, cinture e zaini, per potersi nutrire, e in alcune circostanze fu necessario intervenire per impedire episodi di cannibalismo.
In questa situazione disperata, qualche momento di sollievo venne agli assediati dalle imprese da autentico corsaro del Capitano Giuseppe Bavastro, un personaggio, esempio delle capacità marinare dei genovesi, che è stato ingiustamente dimenticato. Questi, con un’antica galea a cinquanta remi dotata di tre cannoni venerandi, era capace di lanciarsi verso le navi inglesi sfuggendo al loro fuoco e di forzarne il blocco, recuperando in qualche modo, lungo le riviere, quel poco di rifornimenti che la situazione gli consentiva di trovare.
Ma la sua impresa più bella la visse quella notte in cui, invece di sgattaiolare tra le navi nemiche, affrontò a viso aperto una nave inglese ben più armata della sua. Il nemico aveva preso l’uso, nelle ore notturne, di avvicinarsi alla costa e bombardare la città, causando uno stillicidio di morti e feriti. Bavastro, con la sua galea, decise, una notte, di puntare sulla nave avversaria cannoneggiandola con tale vigore da arrivare quasi a tagliarla a metà. La squadra britannica, a questo punto, si concentrò sulla nave genovese, che riuscì ancora ad affondare tutto il naviglio leggero che le si avvicinava. Esaurita la polvere, il coraggioso marinaio si ridusse a un corpo a corpo finale sul ponte della propria nave fino a quando, impossibilitato a difendersi, si lanciò in mare. All’alba, venne raccolto da una gozzetta mandata da Massena a cercarlo. Da quel momento, comunque, gli assedianti cessarono i loro bombardamenti notturni.
Questo, per quanto riguarda Bavastro e l’assedio del 1800. Pochi giorni dopo la resa di Massena (che ufficialmente non fu una resa: il valoroso generale ottenne di allontanarsi dalla città alla testa dei propri uomini, quasi come un vincitore) Napoleone vinse a Marengo e la sorte delle armi volse nuovamente a favore dei francesi, fino a quando le sconfitte di Lipsia e di Waterloo fecero definitivamente tramontare la stella del generale corso. Sappiamo anche che, chiusa la parentesi napoleonica, con il congresso di Vienna vennero ridefiniti gli equilibri europei e di Genova, dopo quasi tre secoli di tentativi falliti, riuscirono finalmente a impossessarsi i Savoia.
La nuova situazione preoccupava non poco i maggiorenti della città, che temevano di dover subire da parte piemontese una politica protezionistica adatta a un’economia agricola ma assai poco favorevole alle tradizioni mercantili dei genovesi. Fu così che, allo scopo di ingraziarsi i sovrani, i maggiorenti della Camera di Commercio decisero di regalare ai Savoia una nave da guerra, per rafforzarne la flotta. La nave, battezzata Commercio di Genova, svolse funzioni di ammiraglia nel corso di una spedizione contro Tripoli resasi necessaria a causa delle connivenze tra il Bey di quella città e i pirati maghrebini. Peccato che…
Leggete qui sotto un brano, tratto da “Il Mulino dei Botta Adorno”, in cui racconto a modo mio ciò che realmente accadde nel corso di quella spedizione. La parte conclusiva della storia, invece, è frutto della mia fantasia.
Da “IL MULINO DEI BOTTA ADORNO” (Liberodiscrivere, 2016)
– Beh, insomma, voi forse sapete che il 28 Pratile dell’Anno XIII della Rivoluzione, e cioè in quello che per noi miseri mortali reazionari e baciapile è il 17 Giugno 1805, venne istituita la Camera di Commercio di Genova, un organo di autogoverno del mondo imprenditoriale genovese, guidata dalle migliori forze della borghesia locale. La notizia che invece forse non avete, o che magari vi è giunta incompleta, è quella di cui sto per parlarvi e che ci riguarda da vicino. – Pietro continuava ad ascoltare, concentrato, mentre da un’altra saletta giungevano il botto di una bottiglia di champagne e un ‘Evviva’ scoppiettante.
– Per farvela breve, – riprese Arvoix – i capintesta dell’imprenditoria genovese, per ingraziarsi il nostro Sovrano, decisero di offrire in dono alla Corona una nave da guerra., allo scopo di rinforzare una flotta che, bisogna ammetterlo, un po’ per la tradizione militare savoiarda, di provenienza alpina, e un po’ per le condizioni oggettive protrattesi fino a quel momento, era inadeguata al ruolo che i Sovrani volevano per il regno di Sardegna. Venne quindi deliberato che la Camera di Commercio avrebbe fatto costruire a proprie spese una fregata, armata di quarantaquattro cannoni sulle fiancate e battezzata come “Commercio di Genova”, per donarla a Vittorio Emanuele I, nostro Re. Bellissimo, vero? Ma qui c’è un ma… E il “ma” è costituito dalla notoria avarizia dei genovesi, i quali volevano, sì, fare bella figura, ma spendendo il meno possibile e così decisero di realizzare il progetto, dell’ottimo ingegnere Giacomo Biga, di Laigueglia, utilizzando materiale di seconda qualità: per la precisione, legno non ben stagionato. La conseguenza è che la nave non è equilibrata e scarroccia, e in realtà è questo il vero motivo per cui, dato che il mare era appena un po’ mosso, la nostra ammiraglia non ha potuto entrare nel porto di Tripoli per bombardare la città! Capite? Rischiava di rimanere prigioniera delle secche vicine alla zona protetta dai moli. Per fortuna i nostri hanno saputo battersi, ma i Baciccini hanno fatto un’altra brutta figura…
– Mi fa piacere, di incontrarvi di nuovo, Arvoix. – La voce del Guardiamarina Traverso si fece udire distinta nella sala, dove il rumore delle chiacchiere calò di colpo. L’interpellato si voltò in direzione di chi aveva parlato, con un sorriso tirato, tra la sorpresa e la sfida, sul volto naturalmente pallido. Pietro riprese:
– Se non ricordo male, proprio qua, parecchio tempo fa, si era posta tra noi una questione che non abbiamo più chiusa. Mi piacerebbe riprenderla ora, chiarendo però prima con voi alcuni punti sui difetti e le qualità delle genti che hanno partecipato all’impresa di Tripoli. – L’altro fece per dire qualcosa, ma il carlofortino era lanciato e incontenibile:
– Intanto, sulla nave di cui ora vi fate beffe, erano imbarcati dei valorosi provenienti da ogni parte del Regno: Sardegna, Liguria e Piemonte. Per quanto ne so, voi, che ora ve ne state qui seduto coraggiosamente a parlare, con le gambe larghe e dopo aver bevuto un bel po’ di vino, non ci eravate, a combattere insieme a noi. Ma ora vi ritenete in diritto di parlare. A parole siete un vero maestro! I miei complimenti. E questo è il primo punto.
Un mormorio di consenso accolse queste prime parole. Pietro riprese: – Quanto alle vostre critiche ai Baciccini, come li chiamate voi, vi ricordo che hanno dimostrato coraggio da vendere quando, in condizioni di inferiorità numerica, vi hanno suonato per bene ai tempi della guerra di Zuccarello e quando hanno scacciato dalla Liguria voi e i vostri alleati austriaci, nel 1746. E infine, visto che trovate a ridire sulla parsimonia degli imprenditori genovesi, vorrei fare insieme a voi qualche considerazione sull’intelligenza dei torinesi, che hanno fatto del Signor Pietro Micca il loro eroe. Mi chiedo, infatti, se non fosse anche lui avaro fino all’autolesionismo, visto come si comportò durante l’assedio di Torino di circa centovent’anni fa. Mi hanno raccontato che i vostri Savoia, che cambiano alleato come altri cambiano le mutande, erano assediati dagli imperiali, per via della guerra di successione spagnola. E c’erano i minatori dell’esercito assediante che stavano per entrare in una delle vostre trincee e il Micca ha deciso di far saltare un barilotto di polvere per fermarli e gli ha detto al suo compagno, un certo Pautasso, una cosa più o meno così: Auss-te ch’it ses pì long ëd na giornà sensa pan, che vuol dire che faceva meglio a filarsela, perché era più lungo di una giornata senza pane, e io so cosa vuol dire, perché ho anche io un amico così, che si chiama Piscioevegno e non vi spiego perché… Ma qui viene il bello, perché l’eroico signor Micca, per risparmiare sulla miccia, che ti fa? Ne mette una corta, ma così corta che nel botto c’è rimasto anche lui. Coraggioso senz’altro, ma tignoso da morire, vi pare? Eroe del risparmio di Sua Maestà! A questo punto la domanda è: più fessi i genovesi o i piemontesi? Io, comunque, sarei anche metà sardo, quindi mi chiamo fuori da questa bella gara…
Tacque, a questo punto, e rimase immobile, chinato in avanti, a guardare l’altro con un suo sguardo caratteristico, fisso, leggermente ipnotico.
Il viso di Arvoix aveva assunto una sfumatura quasi apoplettica. Si alzò dalla sedia con qualche difficoltà, tanta era la rabbia che aveva in corpo, e sbatté il proprio guanto addosso al mascalzone che lo aveva pubblicamente insultato. Questi raccolse il guanto e glielo ributtò, con altrettanta aggressività.
– Arvoix, siete stupido e prevedibile. Attendo i vostri padrini.
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“Imbecille. E’ con questo nome che dovranno chiamarmi, se esco vivo da questo guaio. Oppure, se ci lascio la pelle come meriterei, dovranno scriverlo sulla mia tomba: Perfetto Dannatissimo Imbecille!”
Il Guardiamarina Pietro Traverso, dritto in piedi, in maniche di camicia, in mezzo a uno spiazzo sassoso, sulla alture genovesi del Righi, verso le sette di mattina del 2 di Novembre del 1825, stava svolgendo tardive riflessioni sulla propria imbecillità e sugli errori commessi.
Aveva avuto tutto il tempo per chiederselo, nei tre giorni che erano seguiti a quella scena, perché mai se la fosse presa così calda. E qualche risposta se l’era anche data: innanzi tutto pesava lo spaesamento dovuto all’aver conseguito, finalmente, ciò che suo padre gli aveva imposto fin da bambino come l’obbiettivo della sua vita: vendicare il sacco di Carloforte, la cittadina dove era nato, perpetrato dai maghrebini. Altri avrebbero potuto pensare che questa idea fissa della vendetta contro i pirati era una cosa idiota… ci fossero stati loro, a sentire l’indignazione e la rabbia che vibravano nel corpo del suo vecchio mentre gli raccontava cosa aveva visto! Così lui se l’era presa sulle spalle, questa croce, ma ora che aveva finito non sapeva più perché, né chi era lui, e cosa avrebbe fatto adesso. Rivedendo tutto ciò che era successo nella sua vita, gli veniva da concludere che forse era vero che aveva inseguito una cosa senza costrutto… Poi bisognava mettere in conto il suo orgoglio per la discendenza tabarchina e le origini genovesi. Questo, se non altro, rimaneva un punto fermo della sua visione del mondo. Infine, c’era l’antipatia personale per Arvoix. C’entrava poco che fosse piemontese: di amici piemontesi ne aveva avuto tanti… Erano la spocchia, l’arroganza e l’atteggiamento di superiorità del personaggio che glielo rendevano insopportabile. E poi, quella parola: baciccini… Conclusione: era di pessimo umore per motivi propri e aveva trovato il modo peggiore per sfogarsi: un imbecille. Un perfetto, dannatissimo imbecille.
Il direttore impartì l’ordine. Lui, mentre faceva il primo passo, più lungo che poteva, compatibilmente con la dignità, per allungare la distanza, lanciò un’occhiata in tralice a Piscioevegno, che per una volta era al suo posto al momento giusto e lo stava guardando con apprensione, poi seguitò la sua marcia, contando: due.. tre… fino a dieci. A questo punto, fermatosi, si voltò. Arvoix era di fronte a lui, alto, magro nella camicia bianca, i cui contorni sfumavano nel lucore appannato del primo mattino, e con il suo maledetto ciuffo nero. Sembrava lontanissimo. Sperò di apparire anche lui, per il proprio avversario, come un bersaglio irraggiungibile, e maledisse il proprio fisico tozzo e compatto che forse lo rendeva un bersaglio più facile. Si mise in posizione, con la gamba sinistra allineata dietro a quella destra e il braccio che reggeva la pistola piegato a coprire il fianco e la testa, per quanto possibile. Si chiese, per una frazione di secondo, se dovesse pregare e optò per il no: uno che si fa ammazzare come un cretino, cosa prega a fare?
Poi puntò la pistola. Al comando, premette il grilletto e, quasi nello stesso momento, una botta violenta lo fece cadere a terra. – Chissà cosa succede adesso… – si chiese, prima di perdere conoscenza.
Pier Guido Quartero
Opere dell’autore pubblicate da Liberodiscrivere