Con la rubrica “il mondo in città” si vogliono raccontare i fatti dalle varie regioni del nostro pianeta che sono rilevanti per noi genovesi, italiani. Sia che ci troviamo sotto la lanterna o altrove, come nel mio caso che scrivo da Bruxelles.
Alberto Spatola
America Latina
Perù, le radici della divisione
Quando vediamo un conflitto familiare, di coppia etc. è difficile comprendere da dove venga certa rabbia se non si conoscono le ragioni profonde, così lo stesso accade nelle società.
Potremmo aver sentito che il Perù è da mesi in subbuglio: conflitto istituzionale, violenze della polizia, tensioni diplomatiche con gli altri paesi della regione, e molto altro.
Ma dove affondano le radici di tutto ciò?
A inizio Dicembre 2022 l’allora Presidente del Perù Pedro Castillo, eletto dopo le elezioni sul filo del rasoio nell’estate del 2021, ha provato a dissolvere il Parlamento per assumere più poteri e anche perché quel Parlamento è da anni che costituisce un ostacolo a ogniriforma, alla stabilità politica del paese e i parlamentari hanno la loro reputazione continuamente minata dalle indagini sulla corruzione.
Il Parlamento, di tutta risposta, giustamente, ha considerato la mossa del Presidente incostituzionale, e così lo arrestarono.
Da allora Castillo è in prigione, ma buona parte della società è corsa in difesa del “Presidente maestro” e contro un Parlamento che ha pochissimo consenso e fiducia tra i cittadini peruviani.
Le proteste sono state anche violente, la repressione della polizia ancora di più. Forse avete sentito che l’insicurezza dovuta a quelle manifestazioni ha portato alla chiusura del sito archeologico di Machu Picchu, tranquilli, è stato riaperto da qualche settimana. Ma se le proteste sono ben più calme adesso, le ragioni della divisione della società peruviana sono ancora tutte lì.
Non c’è soltanto un conflitto tra istituzioni, un confronto politico tra una destra nazionalista e affarista e una sinistra marxista e populista, condito dalle violenze della polizia. Dietro ai fatti che stanno condizionando il Perù da mesi, ci sono discriminazioni etniche e linguistiche, tensioni tra classi sociali e disuguaglianze tra regioni. Tutte cose che difficilmente sono state spiegate dai media italiani od occidentali.
Torniamo indietro, al ballottaggio con cui Pedro Castillo fu eletto Presidente nel 2021. Il confronto era tra il maestro e sindacalista marxista, Castillo, e Keiko Fujimori, la figlia del Presidente autoritario, Alberto Fujimori, che governò negli anni ’90 e di cui Keiko fu First Lady per molti anni, a seguito del divorzio dei suoi genitori. Inoltre, Keiko Fujimori, dagli anni 2000 ha nelle sue mani l’eredità politica del padre e da allora ha tentato numerose volte di divenire lei stessa Presidente. La famiglia Fujimori è la punta di diamante della minoranza giapponese piuttosto presente in Perù, ma pur sempre lo 0,2% della popolazione, mentre Pedro Castillo è espressione della minoranza indigena, il 25% circa del paese. Nel mezzo c’è la maggioranza del Perù, cioè i ⅔ dei Peruviani che sono mestizo: misto bianchi europei e indigeni latinoamericani.
Il risentimento che la popolazione indigena prova, e che li spinge a difendere il “Presidente maestro” che ha tentato di farsi un “auto golpe”, è dovuta al fatto che mai hanno visto “qualcuno di loro” ai vertici della politica. Non hanno quindi fiducia nelle istituzioni e ancor meno nella destra che condiziona il Parlamento e che con la famiglia Fujimori governò a lungo.
Hanno le loro ragioni.
Negli anni ’90 Alberto Fujimori, con al suo fianco la figlia First Lady, condusse campagne di sterilizzazione forzata mirando soprattutto alle donne povere indigene del sud del paese che spesso non parlando spagnolo, ma quechua, hanno vista la fiducia nel personale sanitario tradita.
Ci sono testimonianze di donne, che dopo decenni ancora cercano giustizia, che sono entrate in ospedale credendo di partorire e sono invece uscite sterilizzate. Se ne contano oltre 200 mila di queste donne in un paese di poco di più di 30 milioni di abitanti. Oltre 200 mila donne è grossomodo l’equivalente di tutte le donne in Liguria in età fertile, e a queste dobbiamo anche aggiungere i quasi 20 mila uomini che furono sottoposti a vasectomia contro la loro volontà. Anche da qui nasce il risentimento del sud indigeno del paese, oltre allo sfruttamento per il lavoro minerario e molto altro.
Da lontano, con le informazioni superficiali che riceviamo, può lasciare interdetti come parte del Perù possa aver riposto le sue speranze e lotte in un politico come Castillo, così improvvisato, omofobo e maldestro che dopo pochi mesi ha servito su un piatto d’argento l’occasione per essere messo in prigione. Ma questa storia ben rappresenta le “vene aperte” del continente, per citare un famoso libro di Eduardo Galeano, e non a caso questa vicenda sta dividendo i paesi della regione, dal Messico al Cile, tra chi sostiene Castillo e ne chiede la liberazione, e chi imbarazzato tace. Africa – Nigeria, l’elezione che sa di futuro prossimo
Le elezioni presidenziali in Nigeria, come ne ha discusso Il Post, sono le elezioni più importanti di cui non avete non avete sentito parlare.
In sintesi, la Nigeria è il gigante d’Africa con il potenziale d’essere un modello di democrazia e crescita economica ispirante per i suoi vicini e il continente intero. Eppure, questo potenziale è da anni che resta inespresso.
Il Presidente uscente Muhammadu Buhari ha governato per gli ultimi 8 anni ed esce di scena come un politico che ha saputo tenersi lontano dalla corruzione, nonostante anche nel suo cerchio più ristretto gli scandali dilagavano. Dopo 8 anni passa il testimone con attenzione affinché le elezioni per il suo successore fossero trasparenti e giuste. Ma l’elezione non si è svolta in maniera del tutto tranquilla, e soprattutto i nigeriani dopo 8 anni sono più poveri, i problemi d’insicurezza sono ancora largamente presenti e la corruzione è un problema strutturale del paese contro cui Buhari è riuscito a far ben poco, nonostante le promesse e le speranze.
Per tutto ciò, soprattutto i più giovani nel paese, hanno riposto le loro speranze e sostegno nel candidato più giovane, pur sempre di 62 anni, ma soprattutto fuori dai due blocchi principali che condizionano la politica nigeriana dal 1999, cioè da quando il paese è tornato alla democrazia. Peter Obi, del Partito Laburista, era quindi sulla cresta dell’onda, ma come si è visto a spoglio finito la strada era in salita per l’imprenditore dalle maniere semplici e già governatore di uno Stato del sudest della Nigeria.
Peter Obi era ben lontano dall’essere il candidato perfetto, quando intervistato su temi cruciali come la sicurezza e il cambiamento climatico era estremamente vago, lasciando il suo carisma fare il resto. Un carisma costruito su sui modi di fare umili, serve il tè ai giornalisti che incontra e si porta lui stesso “le sue borse”, tutto ciò in chiaro contrasto con i politici ordinari in Nigeria che hanno l’apri porta dell’apri porta, gli assistenti degli assistenti con il biglietto da visita platinato e i camion di contante intercettati in entrata e uscita delle ville dei “grandi elettori” per gestire, corrompere, comprare il consenso.
Insomma, i giovani nigeriani (l’età media del paese è 18 anni), soprattutto del sud del paese e della capitale Lagos nel centro del paese, volevano porre la maggior distanzapossibile tra il loro voto e Bola Tinubu, il cosidetto padrino di Lagos, il candidato che sostenuto dal suo partito “Congresso di tutti i Progressisti” ha infine vinto. Il suo slogan era “è il mio turno”. Dopo decenni in politica a tirare le corde dietro le quinte ha incassato il premio più grosso della politica nigeriana, ma col risultato più magro mai ottenuto: ha vinto ma col solo 36% e in solo 12 Stati su 36 (più il distretto della capitale Lagos, dove ha vinto Obi).
Il motivo di questa differenza tra la mobilitazione giovanile e il risultato finale è tristemente semplice: le differenze geografiche, religiose ed etniche sono ancora la spinta principale degli elettori nigeriani. Perciò il voto del sud, a maggioranza cristiano, si è diviso tra Peter Obi, arrivato terzo col 25%, e Atiku Abubakar, secondo col 29%. Il Nord, a maggioranza mussulmana, invece la divisione è stata più tra i due candidati dei partiti più tradizionali: Atiku Abubakar e il Presidente eletto Tinubu. Ma, ancor di più sono le etnie che condizionano le vite di molti africani, dai matrimoni alle elezioni, e tutte queste differenze, con difficoltà, ma convivono all’interno di confini disegnati da altri; nel caso della Nigeria dal Regno Unito.
Il risultato finale ha portato quindi, frustrazione, rabbia, e anche disordini e recriminazioni.