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E tu del tempo non sei più signora. La cultura vince la morte

Homo sapiens è una strana creatura, la più strana dell’universo; forgiato con gli stessi elementi di cui sono costituiti tutti i corpi celesti, è soggetto come questi alla disgregazione, ma ha il terribile castigo (o dono?) di saperlo, e ovviamente la cosa non gli piace. Il sapere,  prerogativa degli dei immortali, comporta anche il sapere di dover morire. Homo, è un meraviglioso e terribile ircocervo e, come questo mostro mitologico, metà capro e metà cervo, porta in sé due componenti, quella mortale e quella immortale, prerogativa degli dei, che peraltro egli stesso ha inventato. Indaga e conosce i misteri della terra e del cosmo e sa cos’è il bene e il male, ma sa anche che la sua vita dovrà finire, ed è molto più breve di quella di altre creature viventi, gli alberi per esempio. È una creatura intermedia, fra l’animale, innocente e insipiente, capace solo di sfuggire per istinto i pericoli di morte, e gli dei, che non moriranno mai.

I miti, come sempre, prima di ogni teoria psicologica e scientifica, hanno illustrato al meglio, e poeticamente, il dilemma.

Uno è quello babilonese che narra di Adapa che ha ricevuto dal padre Ea, dio della sapienza, questo grande dono, ma non l’immortalità. Un giorno, mentre sta pescando, il dio del vento strappa la sua rete; Adapa, col potere della sapienza, lo maledice tanto violentemente da spezzargli le ali. La contraddizione non è tollerabile, non si può avere il sapere, prerogativa divina ed essere privi dell’altra, l’immortalità. Per risolvere il problema, Anu, re di tutte le divinità, convoca Adapa presso il suo trono e gli consiglia di non accettare nessun cibo dagli dei, perché potrebbe essere quello della morte. Adapa obbedisce, ma ciò che gli viene offerto è l’alimento della vita, che gli avrebbe dato l’immortalità, facendo di lui un dio.

Il mito dà la spiegazione di un dato di fatto, in questo caso la mortalità che, insieme al sapere, e alla sua ricerca, caratterizza gli esseri umani. Un altro mito, a noi più noto, ma spesso frainteso, è quello biblico del peccato originale che non è, come alcuni erroneamente credono, un peccato sessuale; ma piuttosto un peccato di superbia, quella che i greci chiamavano hybris, la pretesa di essere come gli dei, di raggiungerne la sapienza. Adamo ed Eva mangiano il frutto dell’albero della conoscenza, divengono sapienti “come dio” e in grado di conoscere il bene ed il male; ma durante la fuga precipitosa che segue la cacciata dall’ Eden non riescono ad afferrare il frutto della vita che avrebbe dato loro l’immortalità.

Personalmente trovo questo mito uno dei più significativi che l’uomo abbia creato per descrivere la propria condizione contraddittoria. I nostri progenitori vivevano felici ed ignari, innocenti come gli animali, in un luogo che dava loro un confortevole riparo e cibo in abbondanza. Il frutto della conoscenza (meglio della coscienza) li fa uscire dalla condizione di animalità e li fa entrare nel mondo della cultura. Non più la sopravvivenza guidata dal puro istinto, ma dipendente dal lavoro; una vita segnata dalla fatica  e dal “male di vivere”, e soprattutto dalla consapevolezza morale, quella che gli animali non posseggono; il leone che sbrana la gazzella non è “cattivo”, segue la sua natura. Contrariamente agli animali, che hanno un semplice istinto di conservazione, l’essere umano sa che dovrà morire, da qui la sua angoscia,   l’inquietudine esistenziale che lo caratterizza, quel continuo oscillare fra l’esaltazione della conoscenza e della sua continua ricerca; e la consapevolezza della brevità della vita, e di una morte di cui non si conosce il momento di arrivo. Ma homo è tenace e non si arrende, non vuole morire, e come ha inventato il concetto di immortalità così inventerà qualcosa, uno strumento complesso, articolato e sublime, per ottenerla. Inventerà un nuovo mondo in cui vivere: la cultura. Sublime paradosso, la morte diviene strumento di immortalità. Il mondo della cultura allarga gli orizzonti dell’agire umano, supera le ristrettezze vincolanti di un tempo limitato, dà senso e scopo al suo fare. Un mondo illusorio? Forse, ma l’unico che può placare la sua ansia e salvarlo dalla disperazione. La cultura crea memoria e aspettativa, poli fra i quali inseriamo esperienze e azioni; tutti, anche coloro che pensano che solo il nulla li attende, non rinunciano a compiere qualche impresa, grande o modesta che sia, che gli sopravviverà. Arte, scienza, filosofia, e qualunque azione umana, non fosse che quella di piantare un albero o costruire una casa, o mettere al mondo dei figli, nasce dall’impulso insopprimibile di trascendere i limiti angusti, materiali e temporali, concessi all’Io individuale. Tutto ciò indipendentemente dalla credenza nell’immortalità dell’anima, che non appartiene a tutte le culture e religioni della Terra, ci sono infatti molte maniere di ampliare l’orizzonte della propria vita individuale e sociale.  La morte dal punto di vista biologico è una, ma i modi culturali di interpretarla e di cercare di superarla sono molti e assumono forme diverse. Gli antichi Egizi credevano nella vita dell’aldilà, tutta la loro civiltà è in funzione di questo passaggio, al contrario per gli israeliti l’uomo è vicino a Dio solo durante la sua esistenza terrena la quale è racchiusa in un ampio orizzonte che dal passato, noi diremmo memoria storica, si stende alle generazioni future.

La morte dunque, da spietata distruttrice, diventa la madre della cultura, perché l’uomo non si arrende ad essa e la trascende con le sue opere e con la memoria che vuole lasciare di sé, individualmente e collettivamente. Ecco perché la memoria storica, la consapevolezza, anche critica del nostro passato è irrinunciabile per la vita, anche per quella futura, la nostra personale e di coloro che ci succederanno.

Il tema della morte, in tutte le sue declinazioni, è alla base dell’intera, straordinaria civiltà dell’antico Egitto, non soltanto delle sue manifestazioni religiose. Esemplare è il concetto di giustizia, la Maat, personificata da una dea che simboleggia in modo vasto e profondo il buon funzionamento di ogni cosa, la pace: l’armonia, da quella cosmica a quella dei rapporti fra gli umani. Così la definisce l’egittologo Ian Assmann Giustizia è un principio che va al di là della morte, è fonte di vita e conferisce stabilità. La caducità e la morte risultano dalla disgregazione e dallo smembramento. La giustizia è il principio del legame, quello che unisce l’uomo al suo prossimo e fa di tutti insieme una comunità. Ed è questo legame che è fonte di vita. L’uno vive, dice un proverbio egizio, se l’altro lo guida.

La comunità, che trascende la vita del singolo, non può esistere se non da un legame pacifico e armonico fra gli uomini. Una saggezza esposta in pochi concetti, non occorrono ponderosi volumi di filosofi e sociologi; comprensibile per tutti, ma difficile da mettere in pratica: oggi questo sedicente sapiens è costretto a contemplare le ferite che ha inferto all’ambiente in cui vive, e quelle dei soprusi e delle violenze che l’uno ha inflitto ed ancora infligge all’altro. Se non sarà in grado di porvi rimedio, avrà decretato la vittoria della morte. La pace è l’unica cosa in grado di sconfiggere la morte violenta, e di superare la mortalità biologica inevitabile, lasciando i suoi doni alle generazioni future.

Per gli Egizi il mondo terreno e quello dell’aldilà erano legati, la guida reciproca fra gli uomini riguardava anche i morti: il valore di questo legame vale anche per chi non crede nell’immortalità dell’anima e in una destinazione ultraterrena. I nostri morti, quelli famigliari (che per i Romani e per molte popolazioni furono i primi dei) e quelli che si sono distinti nella comunità per le loro opere, vivono nella memoria e ci guidano o almeno dovrebbero. Il passato tuttavia per noi moderni dovrebbe essere valutato con occhio critico e non assunto dogmaticamente. Radici e tradizioni non sempre sono al servizio della pace e dell’armonia, ma diventano strumenti del potere per soggiogare le masse e seminare discordia.

Lo strumento che con maggiore efficacia è stato capace di superare la morte e la strettezza del tempo concesso all’uomo è stato la scrittura, una delle invenzioni più grandi, forse l’unica che in caso di catastrofe planetaria dovremmo curare di mettere in salvo.

Noi non ci badiamo più, scriviamo e leggiamo, più volte al giorno, messaggi di ogni tipo e su supporti diversi, ultimi in ordine di arrivo quelli elettronici, ma se ci fermiamo un attimo a riflettere vediamo che la scrittura e la lettura occupano gran parte della nostra giornata, se all’improvviso scomparissero sarebbe un immane disastro.

. Dire scrivere e leggere vuol dire anche  libro, e il libro è lo strumento che è riuscito nel modo più efficace a sconfiggere la morte creando un mondo parallelo, un mondo quasi immortale al quale tutti possiamo aver accesso.  Il libro fa parte della vita umana da millenni,  inciso su tavolette di argilla o cosparse di cera, scritto su foglie di papiro, su pergamena, stampato su carta, e oggi digitalizzato sui modernissimi e-reader, lettori di libri elettronici (ebook),   mantiene sempre la sua funzione e la sua essenza: in estrema sintesi, raccontare storie, trasmettere idee.

Il libro è strumento e simbolo dell’intelletto, nutrimento della vita interiore ed emotiva, interlocutore volta a volta consolatorio e sconfortante, stimolante e pungente, comprensivo e impietoso. Il libro è capace di sfidare il tempo conservando fra le sue pagine i pensieri immortali di uomini mortali, di superare le grandi distanze portando le parole di maestri che vengono da lontano, di regalare storie vecchie e nuove che raccontano dell’eterna, conflittuale, condizione umana. Tuttavia il libro non è oggetto sacrale e intoccabile, non è né idolo né feticcio, ma un prodotto squisitamente umano e, come tale, sottoposto all’uso e alla critica, non depositario di verità assolute, ma di proposte da offrire alla riflessione e all’indagine.

Vorrei chiudere con questa citazione tratta da un testo sapienziale Egizio del XIII secolo a. C. a proposito dei grandi classici del passato.

Non si sono creati piramidi di pietra
 né eretti stele di metallo;
 non hanno voluto lasciare eredi sotto forma di figli
 per tenere vivi i loro nomi.
Hanno fatto dei libri i loro eredi
 e gli insegnamenti che scrissero.
 Hanno fatto del rotolo di scrittura un sacerdote celebrante
 e della tavoletta scritta un «amorevole figlio».
 Gli insegnamenti sono le loro piramidi,
 il papiro è il loro figlio,
 la pietra levigata la loro moglie.
 Grandi e piccole cose
 furono date loro come figli;
 lo scriba è il maggiore di tutti.
 Si sono eretti in loro ricordo archi e tempietti – che sono
 andati in rovina.
 I loro sacerdoti funebri se ne sono andati,
 i loro altari si sono ricoperti di terra,
 i loro tempietti sepolcrali sono stati dimenticati.
 Però si nominano i loro nomi sugli scritti che hanno creato
 poiché, grazie alla loro perfezione, durano.

Ian Assmann La morte come tema culturale  Einaudi