Libri alla Ponentina – Mosche d’inverno
Eugenio Baroncelli “Mosche d’inverno” Sellerio editore Palermo
Chi percorre sentieri solitari e impervi è ripagato dalla fatica col ritrovamento di fiori rari, e questo libro, lo è: non si trova sulla strada battuta delle recensioni televisive o delle classifiche; bisogna appunto cercarlo per altre vie, con un po’ di fiuto, spulciando attentamente cataloghi on line.
Il volume è una raccolta di tanatografie, che sarebbero poi il contrario delle biografie: se queste sono racconti della vita, di personaggi per lo più illustri, le tanatografie (dal greco thanatos, morte) sono i racconti della morte, racconti brevi perché, per quanto l’agonia si prolunghi, questa si risolve in poco tempo. Mai titolo fu più esplicito e poetico: Mosche d’inverno. 271 morti in due o tre pose. I personaggi qui descritti, celebri per imprese storiche o artistiche, appartenenti alle epoche più diverse, morti giovani per lo più, appaiono in tutta la loro precarietà, come questi insetti nella stagione fredda. La scrittura elegante e la partecipazione commossa agli ultimi momenti di vita di uomini e donne stroncati nel fiore degli anni, fanno di questo libro un’esperienza, estetica, culturale e umana, altamente gratificante; la struttura antologica consente una lettura non continuativa rispetto all’indice, e saltuaria nel tempo.
QUALCHE ASSAGGIO
Umberto Boccioni (Sorte, Verona, 17 agosto 1916)
Mai capitare in un posto con quel nome. Lui, a morire per un tiro della sorte, ce l’ha sospinto la guerra. Si era arruolato volontario, si era vestito in fretta da soldato, e oggi se ne va a trentaquattro anni. Cade dal cavallo che sta imparando a montare, batte la testa piena di colori e non si rialza più. Muore come Maria Malibran, poco più esperta di lui, e Gengis Khan, che a cavallo era nato. Muore con un sogno: non di annientare il nemico sul campo di battaglia, ma di andare al trotto con lei sotto la luna che imbianca il lago. Gli dèi lo sorvegliavano dall’alto dei cieli. Ha la mano speciale di un futuro maestro della pittura. Ha un corpo agile da seduttore. Margherita Sarfatti, che a letto con lui c’era stata, deplorerà piccata la piccante escalation delle sue prede, prima sartine e poi mogli di direttori di banca. Tre settimane prima, sulle rive del lago Maggiore, ha incontrato Vittoria Colonna e si è innamorato per l’ultima volta. Lei, bella, maritata, capricciosa e ghiotta della vita, lo ha riamato all’istante. Hanno nuotato in quelle acque dal colore, il blu cobalto, verso cui va virando la tavolozza di lui mentre ritrae il maestro Busoni. Pigri come i gatti, hanno preso il sole sulla terrazza della villa, quel minuscolo lembo di terra che lei ha trasformato in un giardino dell’Eden. Hanno cenato soli al lume di romantiche candele. Addosso gli trovano l’ultima lettera di lei, che si è portata via dal loro paradiso.
Marie-Anne-Charlotte Corday
Parigi, piazza della Rivoluzione, 17 luglio 1793. Sale il patibolo senza un rimpianto. Senza un lamento offre alla ghigliottina il suo collo di ragazza (ha venticinque anni). È una piccola normanna di buona famiglia, condannata per nascita e indigenza al celibato o al convento: «una donna inutile, cui una vita più lunga non sarebbe servita a nulla», come ha dichiarato candidamente ai giudici il giorno prima. È così inutile che, nel dipingere su commissione della Convenzione quel quadro che tutti ricordano, Jacques-Louis David se l’è dimenticata. C’è lui, Marat, quel bell’atleta dal corpo muscoloso, riverso sul bordo della fatidica vasca, c’è il telo macchiato dal suo sangue, c’è la lettera che gli ha scritto nella sua grafia di letterata maliziosa («Basta che io sia infelice per avere diritto alla vostra benevolenza»), c’è il coltello da cucina col manico d’avorio che ha comprato per quaranta soldi nella bottega di Badin, sotto i portici del Palazzo Reale, ma non lei, la piccola normanna che ha trucidato il grande Amico del Popolo.
Georg Trakl
Ospedale di Cracovia, 3 novembre 1914. Il cuore gli si ferma nel miserando padiglione psichiatrico in cui è stato ricoverato. Ha abusato dell’oppio nei bordelli di Salisburgo, del cloroformio nella farmacia in cui è stato praticante e della sua vita quando era vivo. Solo la poesia non l’ha tradito, ma questo non lo sa. Gli mancano due mesi per compiere ventotto anni, quanti ne ha l’obnubilata Edie Sedgwick quando finisce come lui. Gli mancano tre anni per sapere che sua sorella Greta, che lo ha baciato per la prima volta nel buio, mentre ascoltavano il primo coro del Tristano, si ucciderà con la pistola. Nessuno lo accompagna alla tomba, tranne quel devoto minatore di Hallstadt che gli faceva da attendente.