FOGLI SPARSI
Vagabondaggi di riflessioni e ricordi, appuntati senza un ordine preciso,
su fogli sparsi
Rubrica a cura di Grazia Tanzi


Leggere la città

I fantasmi sono una specie variegata: ci sono quelli che appaiono a mezzanotte e scorrazzano nelle sale dei castelli con gran fragore di catene e raccapriccianti ululati; ci sono gli spiriti che fanno ballare i tavolini  portandoci notizie dall’aldilà; ci sono i demoni meridiani, mediterranei o dei deserti, che compaiono a tentare gli uomini quando il sole, abbacinante e a perpendicolo, non forma le ombre; ci sono poi quelli della mente, diversi per ciascuno di noi. Tutti in varia maniera sono fonte di inquietudine, talvolta di spavento.

Eppure non sempre è così, ci sono fantasmi quieti, dimenticati, negletti, che non fanno paura, né destano turbamento, stanno con noi ogni giorno, osservano il nostro affaccendato andirivieni quotidiano, ci aiutano a districarci, quando serve, nel labirinto metropolitano. Sono i fantasmi delle targhe stradali che nominano vie, piazze, vicoli; nomi incorporei, semplici indicatori ai quali spesso, per noi, non corrisponde nulla. Ebbene, come  già  in un articolo precedente, voglio evocare uno di questi fantasmi, dargli, anche se per poco, un volto e una voce, per quanto flebile, e sottrarlo ad un ingiusto oblio.

Questi che amo sono fantasmi crepuscolari, è in quest’ora incerta fra il giorno e la notte che di solito appaiono, pronti alla mia chiamata che li solleva un poco dalla loro solitudine.

In questa bella sera di giugno, straordinariamente calda, piazza Rapisardi è come al solito animata da una piccola folla di varia umanità; io aspetto, seduta su una panchina, gli amici per andare in pizzeria. Sono arrivata con buon anticipo e mi guardo intorno.

 Eccolo, è là, di fronte alla targa, una smilza  figura: veste un abito scuro, di foggia antiquata, porta un cappello ad ampia tesa;  mi sembra di vedere un leggero scuotere del capo mentre contempla la targa imbrattata di adesivi.  Non può essere che lui, regge un bastone da passeggio, accessorio elegante, ma desueto, inadatto ai nostri tempi frettolosi; nessun ozioso oggi passeggerebbe sul Lungomare facendolo roteare con destrezza, ma lui sì, ce lo vedo proprio.  Si volta e ne ho conferma,  il viso smunto, i lunghi baffi da tricheco che vibrano leggermente:  Mario Rapisardi, poeta, Catania 1844-1912, secondo quanto recita la lapidea lastra. Gli faccio cenno di avvicinarsi, si guarda intorno esitante, poi avanza ostentando disinvoltura, roteando il bastone. Giunto dinanzi a me si produce in un leggero inchino, accennando appena a sollevare il largo cappello con due dita. Nei suoi ritratti quasi sempre lo si vede indossare copricapi di diversa foggia, sospetto per celare la calvizie. Si siede:  – Buonasera signora!

– Buonasera! Devo chiamarla Vate?

– Lei mi conosce, dunque!

– Certo!. – E gli recito il suo biglietto da visita.

 Mario Rapisardi non iscrive nei giornali; non accetta nomine accademiche, né candidature politiche ed amministrative; non vuol essere aggregato a nessun sodalizio; non ha tempo di leggere tutti i libri che gli mandano, molto meno i manoscritti; né di rispondere a tutti coloro che gli scrivano. E di ciò chiede venia ai discreti.

È compiaciuto, sorride; le labbra non si vedono, lo capisco dal leggero tremito dei baffi. Questo suo biglietto da visita è  un piccolo manifesto di indipendenza, di fierezza da cane sciolto. Quanti cosiddetti intellettuali, oggi, in perenne esposizione nelle vetrine mediatiche, aggregati al carro dei potenti di vario titolo, potrebbero affermare altrettanto? Mario Rapisardi è un uomo eccentrico, nel senso proprio del termine, coraggioso, libero.

– Lei signora, allora sa che:

Di notevole non c’è nulla nella mia vita se non forse questo, che, bene o male, mi son formato da me, distruggendo la meschina e falsa istruzione ed educazione ricevuta, e istruendomi ed educandomi da me, a modo mio, fuori di qualunque scuola, estraneo a qualunque setta, sdegnoso di sistemi e di pregiudizi.

– Sono anche questi i motivi per cui, Vate, ho ricercato le sue opere.  La riconosco pure  in questi versi  del suo poema Atlantide

 Quel disdegnoso in su la tolda ritto, / Fosco il crin, fiso il guardo, ampia la fronte, / È il vate etneo, che come spada ha dritto, / L’animo, ardente il cor, le rime pronte…

 Di Lei, mi perdoni, ignoravo l’esistenza prima di venire ad abitare in questo quartiere; a mia discolpa dirò che i libri di scuola non la nominano, neppure fra i minori. La curiosità per la toponomastica mi ha spinta sulle sue tracce: un felice incontro quello con i suoi versi, nei quali in gran parte mi riconosco, e non è piaggeria, la prego di credermi!

La scuola si è dimenticata di lei, ma non del suo ventennale nemico…

– Quel Carducci! Non me ne parli, per vent’anni ho disputato con quel trombone, traditore dell’ideale repubblicano!

“E chi in aspetto di plebeo tribuno / giambi saetta avvelenati e cupi, / e fuor di sé non trova onesto alcuno: /idrofobo cantor, vate da lupi, / che di fiele briaco e di lièo, [cioè di vino] / tien che al mio lato il miglior posto occupi.

– Non gliele ha mandate a dire all’amico Giosué!   Lei era un uomo passionale, un idealista focoso, anche un po’ litigioso, se lo lasci dire. Si era accapigliato a suon di versi velenosi e lettere aperte non solo con Carducci,ma anche con  Croce, Pascoli, Fogazzaro, D’Annunzio, per non parlare dei monarchici e del fronte cattolico!  Ma le confesso che questo  lato del suo carattere non mi dispiace: anche perché le sue battaglie non erano solo dispute accademiche. Ancora adolescente scrisse, un Inno di guerra, agl’italiani e un  poemetto  incompiuto, Dione, nel quale esalta le battaglie di Solferino, Palestro e Magenta, partecipando così all’atmosfera politica di quei mesi, culminati coll’impresa di Mille, che pose fine alla monarchia borbonica.  Lei ebbe l’ardire di scagliarsi contro il governo Crispi e le sue repressioni contro i movimenti dei lavoratori;  scrisse parole di fuoco contro il colonialismo; non esitò a mettersi contro il clero corrotto.Ci vuole coraggio per difendere idee e posizioni simili andando contro le maggioranze conformiste  inchinate al potere, sia esso intellettuale o politico.

 Mi ha commosso la partecipazione alle sofferenze umane da lei espressa nel poema Giobbe; i critici lo considerano il suo capolavoro:  il pover’uomo, vittima dei trastulli di Dio e  di Satana, che soffre ingiustamente, rappresenta tutta l’umanità.

 Vate, si è messo contro tutti, forse per questo su di Lei hanno fatto calare le tenebre dell’oblio.

– Che vuole signora,  Senza pianto una zolla e senza fiori / Terrà chi invan sfidò numi e tiranni.  Ma la libertà va difesa ad ogni costo: …La libertà, sublime / Pianta che sol dov’è cultura alligna!

 – Già è proprio l’ignoranza la peggior nemica della libertà, era vero ai suoi tempi come ai nostri! Ma sa qual è la mia preferita fra le sue opere?

– Mi faccia indovinare, signora… Lucifero!

– Proprio così, Vate, io ho un debole per Lucifero che osa sfidare il massimo potere.

A queste mie parole, il Vate si alza, accenna ad un lieve inchino e con voce stentorea  declama:

—Qui in eterno starò? Favola indegna
 Senz’opra e senz’amore, io, che del cielo

Per istinto d’amor spregiai la vita?

 No, si torni a la terra! Un nuovo io sento

 Spirto d’amor, che mi discorre il petto:

 Santo auspicio è l’amor. L’ultima prova

 Tentiam; l’ora è propizia: assai già sono

 Su la terra i miei fidi; uom fatto anch’io

 Amerò, soffrirò; correrò il breve

 Travaglioso cammin d’un uom mortale,

 E, redento da l’opre e da l’amore,

 Recherò a l’uom salute e morte a Dio.—

 Così l’Eroe parlava, […]

Mutò d’un tratto il favoloso iddio;

[…] Tutt’uomo apparve, e radïò dal volto

 La superba beltà d’un dio mortale.

 Tramutato così, dal piceo trono

 Balzò d’un tratto; il guardo mosse in giro.

 Ed esclamò:—L’infernal regno è sciolto;

 Il mio regno è la terra!—

Lucifero scosso da uno spirto d’amor  ritorna sulla terra, si fa uomo accettandone la sofferenza e il destino mortale per recare all’umanità salute e morte a Dio,  una visione decisamente anticristiana della salvezza. Garibaldi  manifestò  a Rapisardi la sua ammirazione dichiarandosi suo “correligionario”, non così l’arcivescovo di Catania che pare  avesse decretato il rogo del libro.

Il Vate ha recitato con passione e impeto, a voce alta, ma nessuno pare essersi accorto di quella esibizione, la gente intorno chiacchiera, ride, cammina, come se nulla fosse. Intanto scorgo da lontano i miei amici, mi sbraccio per richiamare la loro attenzione, mi hanno vista. Mi volto, sulla panchina ci sono solo io.

Mario Rapisardi fu autore prolifico, nell’articolo sono state nominate solo alcune delle sue opere per non appesantire la trattazione. I seguenti link per chi vuole approfondire. 

SITOGRAFIA

https://www.homolaicus.com/letteratura/rapisardi.htm

https://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Rapisardi#Opere

https://rapiasrdi.altervista.org/biografia_di_mario_rapisardi.htm

https://it.wikisource.org/wiki/Le_poesie_religiose_(1895)

Grazia Tanzi

(Informazioni sull’autore)

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