Libri alla Ponentina – Il gioco della mosca
Andrea Camilleri “Il gioco della mosca” Ed. Sellerio
Questo piccolo libro di Camilleri, gradevolissimo e intelligente, è una preziosa, ironica e affettuosa rievocazione di un tempo che non c’è più; è costituito da “frasi celebri” della sua città, Porto Empedocle, che aveva sentito pronunciare durante l’infanzia; di ciascuna si riporta la storia che si presume abbia dato loro origine. “Non posso in coscienza affermare che le cose qui scritte appartengano esclusivamente alla mia fantasia… quasi tutte mi vennero raccontate da coloro che sono i veri autori di queste pagine, cioè i membri della mia famiglia, paterni e materni.”
Qualche esempio.
BOTTA D’ÀCITU, BOTTA DI SALI, BOTTA DI VILENU, BOTTA DI SANGU Colpo d’acidità, colpo di sale, colpo di veleno, colpo di sangue. Si tratta di quattro maledizioni («gastime») che si scagliano, una per volta, contro un offensore o un avversario. Seguono precisa gerarchia di gravità e perciò vanno esattamente dosate in rapporto al danno subito. Per qualcosa di leggero, veniale, si augura la «botta d’àcitu», una nottata di acidità e pesantezza di stomaco. Qualcuno invece di «àcitu» dice «acìtu», e sbaglia. Perché l’aceto serviva, a quanto pare, a certe vecchiette palermitane per preparare veleni letali. Ben più seria è la «botta di sali»: si invoca una malattia al fegato che renda all’avversario tutti i cibi amari appunto come il sale. La «botta di vilenu» non deve necessariamente risultare mortale ma è sottinteso che l’oggetto della maledizione, qualora si salvi con qualche «contra» (antidoto), dovrà restarne debilitato per tutta la vita. La «botta di sangu» è maledizione che postula malattia inguaribile, lo sbocco di sangue ha da esser conseguenza almeno di tisi galoppante. Per avere reale efficacia, la maledizione deve essere commissionata a una «magàra», una fattucchiera. Notissima in tutta la provincia era la za’ Pitrina: i suoi filtri d’amore irresistibili, le sue fatture infallibili. A lei si rivolse la signora Petrella perché facesse venire al marito una bella «botta d’àcitu» della durata di almeno una settimana allo scopo di tenerlo lontano per un poco dalla giovanissima amante. Za’ Pitrina eseguì. Durante la nottata il signor Petrella ebbe una tale «botta d’àcitu» da lasciarci la pelle. Le guardie scoprirono che era stato avvelenato dalla moglie e che questa aveva coinvolto za’ Pitrina per farsi un alibi o per far ricadere su di lei la colpa. E quest’ultima fu la verità adottata da tutto il paese, e contro ogni evidenza: la signora era innocente, a uccidere il signor Petrella era stata la «magàra» che aveva scambiato una «botta» per un’altra. Da quel momento la fortuna della za’ Pitrina colò a picco.
A BUTTANA DI SCIACCA La puttana di Sciacca. Si era al tempo che il mio paese non si chiamava ancora Porto Empedocle ma Molo di Girgenti. In una gelida giornata di febbraio, pervenne una comunicazione al comando delle guardie locali secondo la quale alle ore venti, col postale proveniente da Sciacca, sarebbe arrivata una prostituta munita di foglio di via per il suo paese d’origine, all’interno della Sicilia. Si trattava dunque di prelevare la donna al momento dello sbarco, trattenerla in camera di sicurezza e il giorno dopo metterla su di un treno. Della faccenda venne incaricato Agatino, guardia scelta. Il postale, per il cattivo tempo, arrivò verso la mezzanotte. Siccome non era stata fornita nessuna descrizione della prostituta, Agatino pensò bene di accostarsi ad ogni donna che sbarcava, sollevare la lanterna all’altezza del suo viso e domandare candidamente:
«Siete voi la buttana di Sciacca ?».
E venne duramente malmenato da mariti, padri, fratelli, cugini o semplici conoscenti delle donne così interpellate. Gli andò anche bene, perché dato il ritardo e il freddo, nessuno si accanì a pestarlo. Intontito e sanguinante si avvicinò all’ultima donna che stava sbarcando e le rivolse, con un filo di voce, la domanda.
«Sì» rispose la puttana.
Grato, mancò poco che Agatino le buttasse le braccia al collo. Poi la portò in camera di sicurezza ma provò pena per quell’essere intirizzito: per non metterla accanto agli altri passeggeri e per non creare tentazioni fra gli uomini dell’equipaggio, il comandante l’aveva fatta viaggiare sul ponte, allo scoperto. Accese un braciere ma non bastava. Non ebbe cuore di lasciarla sola e se la portò a casa, tanto non aveva nessuno cui rendere conto. Parlarono tutta la notte. La donna non partì il giorno dopo col treno, come avrebbe dovuto, rimase invece a casa di Agatino. Tre mesi dopo si sposarono, la guardia si dimise e principiò a fare il muratore. Ebbero figli chiari, che crebbero puliti di cuore e di mente, da fare invidia alle migliori famiglie «civili». Ed è per questo che il cognome di Agatino non l’ho voluto scrivere.