FOGLI SPARSI
Vagabondaggi di riflessioni e ricordi, appuntati senza un ordine preciso,
su fogli sparsi
Rubrica a cura di Grazia Tanzi
Disponiamoci in circolo, seduti sulla candida sabbia di una delle tante isole dell’arcipelago di Samoa, e continuiamo ad ascoltare Tuiavii, il saggio capo che mette in guardia il suo popolo dai pericoli che provengono dal Papalagi, l’uomo bianco. (v. articolo precedente).
Il tempo
Il Papalagi […] più di tutti ama quel che non si lascia afferrare e che tuttavia esiste: il tempo, e anche se non ce ne potrà mai essere di più di quanto non ce ne sia tra l’alba e il tramonto, per lui non è mai abbastanza. Ci sono Papalagi che sostengono di non avere mai tempo. Corrono freneticamente qua e là, come se fossero posseduti dal demonio, […] perché hanno perso il loro tempo. […] Poiché ogni Papalagi è posseduto dall’angoscia per il tempo, sa […] da quando ha visto per la prima volta la grande luce […]. Quando mi si chiedeva l’età io ridevo non sapendola. […] Sapere l’età significa sapere per quante lune si è vissuti. Ognuno vi presta una grande attenzione, e quando sono passate proprio tante lune si dice: «Tra poco morirò».
Anche io, Tuiavii, so quante lune ho vissuto, anche se faccio finta di niente.
Di straniante umorismo sono le descrizioni degli orologi, da tasca e da polso, di quelli delle torri e dei campanili, con le due piccole dita che segnano il passare del tempo e il fragore che emettono al passare di ogni ora.
Dobbiamo liberare il povero, il confuso Papalagi dalla follia, dobbiamo distruggergli la sua piccola macchina del tempo rotonda e annunciargli che dall’alba al tramonto c’è molto più tempo di quanto un uomo possa avere bisogno.
Siamo coinvolti in un perverso meccanismo, ma anche senza distruggere la piccola macchina del tempo rotonda (che magari ci è costata molto metallo rotondo) ogni tanto faremmo bene a starcene distesi sulla stuoia in compagnia di un tempo amico, come consiglia Tuiavii.
La proprietà
“Lau” nella nostra lingua significa mio, e anche tuo: sono quasi la stessa cosa. Nella lingua del Papalagi invece non ci sono parole con significati più diversi di “mio” e “tuo”. È mio quel che appartiene unicamente e solamente a me. Tuo è quel che appartiene unicamente e solamente a te. Per questo il Papalagi dice di tutto quel che si trova vicino alla sua capanna: è mio!
Anche questo capitolo sulla proprietà è incisivo, chiaro e sintetico, più efficace di un trattato di economia, ed oggi, di ecologia.
La palma però non è affatto sua. Non lo sarà mai. È la mano di Dio che dalla terra si tende verso di noi. Dio ha molte mani. Ogni albero, ogni fiore, ogni filo d’erba, il mare, il cielo con le sue nuvole, tutte queste sono mani di Dio. Possiamo afferrare queste mani ed esserne contenti, ma non possiamo dire: la mano di Dio è la mia mano. Questo però è quel che fa il Papalagi. […] Il Papalagi vuole convincersi così di aver davvero conquistato un diritto, come se Dio gli avesse veramente ceduto la sua proprietà per sempre. Come se gli appartenessero davvero la palma, l’albero, i fiori, il mare, il cielo e le sue nuvole.
L’accento è qui messo non solo sul diritto della proprietà in quanto tale, ma sull’appropriarsi di quelli che oggi si chiamano “beni comuni”, sempre tenendo presente l’ingiustizia sociale.
Perché dove molti prendono molto per sé, ce ne sono molti che non hanno niente tra le mani. Non tutti conoscono i trucchi e i segnali segreti per avere molto “mio”,
La meccanizzazione
Questo è sicuramente il più epico e suggestivo dei capitoli del libro. La meccanizzazione, che dà agli umani potere sugli elementi e potenzia le loro limitate capacità naturali, è descritta con grande enfasi, come un miracolo, almeno in apparenza. La descrizione delle invenzioni vista da una diversa angolatura, è come al solito di grande efficacia evocativa, il Papalagi ha una canoa per andare sotto i mari; la macchina che sta dentro al vapore che attraversa gli oceani, divora pietre nere e restituisce la loro forza. Il telaio meccanico Sputava panni, una montagna di panni. […]
Il Papalagi è un mago. Se canti una canzone, cattura il tuo canto e te lo restituisce ogni volta che vuoi. Ti mette davanti un piatto di vetro e ci cattura la tua immagine. E te la fa rivedere mille volte, tutte le volte che vuoi. […] Vede attraverso il suo corpo, come se la carne fosse trasparente come l’acqua, e nel fondo di quest’acqua vede ogni sporcizia.
Ma non è tutto oro quel che luccica:
[…] il Papalagi cerca di eguagliare Dio. […] Ma Dio è ancora più grande e più potente del più grande Papalagi e delle sue macchine, ed è sempre lui a stabilire chi di noi deve morire, e quando. Il sole, l’acqua e il fuoco sono soggetti ancora, prima di tutto, a Lui. E nessun Bianco ha ancora piegato alla sua volontà il sorgere della luna e la direzione dei venti. […] la macchina è un bel giocattolo dei bambini bianchi cresciuti, e tutte le sue arti non ci devono spaventare. Il Papalagi non ha ancora costruito una macchina che lo protegga dalla morte.
Il lavoro
Lucida e impietosa la descrizione dell’alienazione da lavoro.
Avere un lavoro significa: fare sempre la stessa identica cosa. […]. Ogni uomo bianco deve assolutamente avere un lavoro. […]
Il Papalagi ha tanti lavori, quante sono le pietre nel fondo della laguna. Di ogni attività fa un lavoro. Se uno raccoglie le foglie appassite dell’albero del pane fa un lavoro. Se uno pulisce le stoviglie, fa un altro lavoro. Tutto è lavoro se si fa qualcosa. Con le mani o con la testa.
Se un Bianco dice: sono uno che scrive lettere, significa che questo è il suo lavoro, e cioè non fa altro che scrivere una lettera dopo l’altra. Non arrotola sulla trave la sua stuoia per dormire, non va in cucina per arrostirsi un frutto, non pulisce le sue stoviglie. Mangia pesci, ma non va a pescare, mangia frutta, ma non raccoglie mai un frutto dall’albero. Scrive una lettera dietro l’altra perché questo è un lavoro. […] E così va a finire che la maggior parte dei Papalagi sanno fare solo quello che è il loro lavoro.
La specializzazione estrema ha conseguenze assai dannose. Per il corpo per esempio:
[…] ci sono Bianchi che non riescono più a correre, che mettono molto grasso sulla pancia come i maiali, perché devono stare sempre fermi a causa del loro lavoro, che non riescono più a sollevare un giavellotto e a lanciarlo, perché la loro mano sa solo tenere l’osso per scrivere. […]
Ma alcuni lavori sono ancora peggio:
[…] ci sono Papalagi che non fanno altro che alzare o abbassare la loro mano, oppure la spingono contro un bastone, e questo lo fanno in una stanza sporca, senza luce e senza sole. Non fanno niente che richieda l’impiego della forza, o che dia un po’ di gioia; sono costretti a sollevare, abbassare, a battere contro una pietra perché così si mette in moto o si regola una macchina. […] non conoscono la gioia nel lavoro, perché il mestiere distrugge ogni godimento, perché dal loro lavoro non nasce nessun frutto e neanche una foglia di cui poter gioire. […]
E soprattutto il lavoro diventa fine a sé stesso, divora tutte le energie, e va ben al di là delle necessità principali di sopravvivenza.
Ma il Papalagi non ci ha detto la verità, e non ci ha spiegato il motivo per cui dovremmo lavorare di più di quanto voglia Dio per saziarci, per avere un tetto e divertirci alle feste del villaggio.
La religione del Papalagi
Il capitolo più amaro è sicuramente quello nel quale Tuiavii considera la religione che i Papalagi hanno portato al suo popolo col pretesto di liberarlo dall’oscurità.
Il missionario del Papalagi in primo luogo ci ha insegnato chi è Dio e ci ha distolto dalle nostre divinità, che ha definito idoli folli, poiché non contenevano in sé il Dio vero. E allora non adoriamo più le stelle della notte, la veemenza del fuoco e del vento, ma ci siamo volti al suo Dio, il grande Dio del cielo. […] da allora non c’è più guerra nelle nostre isole e ognuno considera l’altro suo fratello. Abbiamo compreso che i suoi comandamenti sono giusti, poiché ora tutti i villaggi vivono in pace, mentre un tempo l’inquietudine era palpabile e gli orrori infiniti.
Ma davvero il Papalagi è sincero?
[…] Figli delle molte isole, dovervi dire queste cose mi rattrista profondamente, ma non dobbiamo e non vogliamo lasciarci ingannare dal Papalagi e neppure farci trascinare nella sua oscurità: ci ha portato Dio, ma lui stesso non ne ha compreso la parola e la dottrina. L’ha compresa con la bocca e la testa, ma non col cuore. […] Il Papalagi raramente pensa a Dio: solo se lo travolge una tempesta o se si sta spegnendo la fiammella della vita pensa che ci sia una forza sopra di lui. […] Il suo spirito è colmo solo di odio, avidità, ostilità. Il Papalagi dice di essere cristiano. Le parole Cristo, Dio e amore il Papalagi le ha solo in bocca: ci fa schioccare la lingua e fa un gran clamore, ma il suo cuore e il suo amore non si piegano a Dio, ma solo alle cose, al metallo rotondo e alle carte pesanti, al piacere e alla macchina.
Credo che non ci sia bisogno di ulteriori commenti.
Conclusioni
Il grande pregio di questo libro, senza alcun dubbio, è quello di rovesciare la prospettiva etnologica, paternalistica, dalla quale abbiamo osservato e giudicato le cosiddette popolazioni primitive, e di mettere in luce le contraddizioni e le assurdità della nostra morale e dei nostri costumi. Un secolo ci separa da queste riflessioni che – in tempi in cui si discute di identità, multiculturalismo, scontro di civiltà – ci inducono a ripensare i nostri comportamenti in termini relativistici. Tuttavia, pur condividendo, nel complesso, gli assunti principali del testo, devo confessare che dalla lettura ho ricavato, in più di un passaggio, una sensazione di disagio, il dubbio sotterraneo e insinuante di una certa artificiosità. Ho avuto l’impressione che si trattasse di un’operazione costruita a tavolino, insomma un “falso”; che l’opera non sia di un samoano, ma proprio di un uomo bianco, il preteso traduttore forse, con intenzioni satiriche e di critica verso la propria civiltà. Una pura e semplice supposizione, non suffragata da alcuna prova, infatti le ricerche da me effettuate non sono approdate a nulla di concreto se non ai medesimi dubbi che ho esposto.
Tutto ciò, in ogni caso, non toglie valore all’intenzione del testo, anche perché ci sono precedenti illustri quali le Lettere persiane di Montesquieu, opera nella quale si finge una corrispondenza epistolare, esotica, fittizia, con il pretesto di criticare la società e i costumi della Francia del ‘700.
Entriamo ora brevemente nel merito dei contenuti. L’analisi di molti aspetti della cosiddetta civiltà occidentale è puntuale e accurata: l’ipocrisia della morale e della religione, il profitto ad ogni costo, lo sfruttamento dell’uomo e delle risorse del pianeta, l’alienazione del lavoro e del tempo sono resi in maniera rigorosa dal punto di vista economico e sociologico, e tuttavia in maniera semplice e chiara, fruibile da un vasto pubblico, secondo le intenzioni dell’autore, chiunque fosse.
Ciò che convince meno è la cosiddetta teoria del buon selvaggio, la visione edenica della vita in armonia con la natura, nella quale si lavora solo per le strette necessità di sopravvivenza, in serena condivisione delle mansioni; dove si è padroni del proprio tempo per dedicarlo all’amore, alle feste, alle danze. Nel bene e nel male siamo figli del nostro tempo, non possiamo negare i progressi della conoscenza e della tecnologia che hanno portato anche molti vantaggi e diritti. Non si vogliono però neppure negare le storture, anche gravissime, che il nostro modo di vivere ha prodotto, le sofferenze atroci di cui si è reso colpevole, ma non è rifugiandosi nell’illusione di una età dell’oro o di un paradiso perduto che si possono risolvere i problemi che il tempo nostro pone. Libri come questo ci danno consapevolezza, ma il passo successivo è quello della partecipazione, di tutti, perché molto si è ottenuto con le lotte democratiche; moltissimo c’è ancora da fare oltre che mantenere alta la guardia per non perdere ciò che si è acquisito.
NOTA Per ragioni di spazio ho omesso alcuni argomenti trattati nel libro, si ritrovano nella recensione odierna dello stesso nella rubrica Libri alla Ponentina.
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