Pierre Michon “La grande Beune” Ed. Adelphi
Non è quel che si dice un libro da ombrellone, è un testo che richiede un certo impegno di lettura; l’autore è uno dei migliori scrittori francesi contemporanei. Questa storia, che si presenta come un romanzo breve o racconto lungo, è in realtà l’inizio di un romanzo che non venne mai terminato; una sorta di narrazione iniziatica, un viaggio agli inferi, premessa alla vita adulta, che vede un giovane maestro, al suo primo incarico, in un borgo sperduto, dove il tempo sembra essersi fermato. “È a Castelnau che fui chiamato in servizio, nel 1961: anche i diavoli vengono chiamati, suppongo, nei Gironi del basso mondo; e di capriola in capriola avanzano verso il buco del cratere come noi scivoliamo verso la pensione. Non ero ancora caduto del tutto, era il mio primo impiego, avevo vent’anni. A Castelnau non c’è la stazione; è in mezzo al nulla; qualche corriera […] ti ci scarica la sera tardi, alla fine del suo giro. Ci arrivai di notte, decisamente inebetito, in mezzo a un galoppo di piogge settembrine imbizzarrite contro i fari…” In questo luogo, ancestrale e simbolico, gli uomini parlano un “dialetto greve”, hanno “”barbe senza tempo”, sono pescatori e cacciatori primitivi che si procurano la vita con la morte, cruenta e impietosa, di altre creature, la locandiera sembra una Sibilla, il fiume, la Grande Beune, gli appare come un buco dove scorrono acque impetuose e fangose. Le suggestioni del paesaggio, richiamano la vita degli uomini delle caverne (siamo nei pressi di Lascaux) e le riflessioni sulla crudeltà, lato oscuro della civiltà. Qui il protagonista vive una passione primordiale per una donna che egli percepisce come una divinità arcaica e sensuale, un’esperienza di crudele esasperato erotismo primitivo e magico. La grandezza del racconto, tuttavia, non sta solo nel contenuto, ma, soprattutto, nella lingua, potentemente evocativa, sciamanica, capace di avvolgere il lettore in un incantamento ipnotico e di trasportarlo in un mondo atavico e misterioso.