L’affare Spampinato Tripoli – 1) Un pensionato al lavoro
Racconto a puntate di Pier Guido Quartero
Cogliendo le sollecitazioni degli amici inizio qui a proporre, a chi abbia del tempo da dedicare alla lettura, una vecchia storia, risalente ai primi tempi in cui mi dedicai a prove di scrittura. Il protagonista di questa avventura si chiama Peo Traverso. Chi ha già letto qualcosa di mio sa che questo cognome compare nella saga familiare attraverso la quale ho provato a narrare la storia di Genova, e tutto questo non avviene a caso. Ma, bando alle chiacchiere, qui comincia
L’AFFARE SPAMPANATO-TRIPOLI
Cap 1: Un Pensionato Al Lavoro
Succede, a volte, che un uomo trovi il proprio percorso nella vita. A volte per caso, a volte per una destinazione fatalmente imposta dalla storia di famiglia, a volte per scelta fortunata o lungimirante.
A volte, appunto. A Pierandrea Traverso non era andata così. Come accade a molti altri, anche per lui quell’ibrido di casualità tra scelta e destino che determina la vita degli esseri umani aveva confezionato una strada mediocre, non priva di qualche picco di soddisfazione o di dolore, ma soprattutto condita dalla noia e dalla routine.
Laureato, senza lode, in Economia e commercio, si era sposato con una coetanea conosciuta frequentando la Federazione Giovanile Comunista del proprio quartiere. Un figlio e poi la separazione. Ormai da più di dieci anni viveva da solo, in un appartamentino affacciato sui tetti del centro storico, ed ora che –dopo trentasei anni di onorato servizio alla Camera di Commercio- aveva raggiunto la pensione, più per riempire il tempo e trovarsi un ruolo sociale che per bisogno reale, si era dedicato all’attività di consulente del lavoro.
Agli amici e agli ex colleghi Pierandrea esibiva una finta sicurezza, dichiarando che finalmente poteva avere un lavoro proprio da gestire ed organizzare come voleva. Si sarebbe trattato, dunque, di una tardiva realizzazione delle sue aspirazioni; in verità, però, la lunga abitudine al lavoro all’interno di un’organizzazione, per di più pubblica, aveva spento, se mai c’erano stati, i suoi impulsi all’indipendenza e all’autonomia: ciò che ne era rimasto era completamente assorbito dalla necessaria attenzione alle incombenze della vita quotidiana che, in assenza dell’accudimento di una moglie, erano più che sufficienti ad esaurire le poche risorse del nostro.
Quella mattina Pierandrea era uscito di casa abbastanza presto. Il cielo di Genova, come sempre in novembre, era di colore grigiastro; refoli di vento si insinuavano sotto i vestiti dei passanti, che rimanevano indifesi malgrado, a quel punto della stagione, portassero ormai quasi tutti il soprabito. La fontana di Piazza De Ferrari mandava i suoi spruzzi a sorprendere coloro che, disattenti, attraversavano il selciato senza guardarsi attorno.
Dopo aver bevuto il rituale caffè al bar sotto casa, Pierandrea fece il punto sulle commissioni di giornata: il primo passo era recarsi alla Camera di Commercio per effettuare qualche consultazione all’anagrafe delle imprese. Il ritorno a quell’ambiente familiare, frequentato per tanti anni, costituiva una sorta di ingresso nella giornata lavorativa agevolato e sicuro, prima di affrontare altri sportelli meno noti e più ostili.
Più tardi, un salto all’INAIL per l’iscrizione del suo ultimo cliente: un giovanotto che stava aprendo una attività di produzione artigiana di cibi preconfezionati per l’asporto. Nel pomeriggio, poi, un appuntamento con un’altra potenziale cliente che, per telefono, gli aveva accennato ad una contorta storia di ricostruzione di carriera ai fini contributivi. Pierandrea non ci aveva capito niente, ma contava, in un incontro faccia a faccia, di riuscire ad interpretare i confusi discorsi della signora che lo aveva contattato.
Intabarrato nel loden verde, si avviò con passo veloce verso Via Garibaldi, guardando con aria volutamente distratta le focaccerie e i bar di Via XXV Aprile, che lo tentavano con il profumo delle brioches e dei salati. Non faceva mai una vera colazione la mattina, perché era convinto che comunque ciò non avrebbe diminuito il suo appetito all’ora del pranzo, ma la tentazione era sempre forte; d’altra parte, essendo permanentemente in sovrappeso e con una certa propensione all’obesità, manteneva eroicamente il punto, salvi cedimenti in altre ore della giornata, soprattutto la sera, che lo condannavano all’inseguimento inutile e perenne di una forma fisica più accettabile.
Trovò Via Garibaldi, come al solito, intasata. Era stata la prima strada della città ad essere pedonalizzata, ai tempi delle gloriose “Giunte rosse e di progresso” che avevano governato il Comune negli anni settanta, ma lui, che ci passava tutti i giorni, non era quasi mai riuscito a trovarla in ordine. La particolare collocazione a ridosso del Centro Storico e i necessari interventi di manutenzione sui palazzi storici ne avevano fatto una specie di corridoio di manovra per auto e mezzi pesanti. Tutto quel casino gli faceva quasi rimpiangere i tempi in cui la strada fungeva da normale arteria di traffico…
Dopo uno slalom rabbioso tra i mezzi che, incastrati in una ridda indescrivibile, intralciavano il passo perfino ai pedoni, Pierandrea raggiunse il portone della Camera. Entrato nei locali dell’Anagrafe, staccò il biglietto d’attesa che determinava il suo diritto ad essere servito e, constatato che ci sarebbe voluta una buona mezz’ora, approfittò per fare un passo, come di consueto, a salutare un vecchio amico, ormai prossimo alla pensione, col quale aveva lavorato fianco a fianco per anni.
Pietro era seduto alla scrivania. Si trattava di un uomo di dimensioni notevoli e con una certa somiglianza a Mao Tse Tung sia per il taglio degli occhi che per due ciuffi di capelli ancora scuri che gli adornavano il capo. Due baffetti neri a scopetta e un bel paio di denti da castoro caratterizzavano un volto sorridente e con qualche tratto infantile. Come vide avvicinarsi l’amico, si alzò dalla scrivania e venne verso di lui: il rituale di quegli incontri, tutt’altro che infrequenti, voleva che i due si recassero nel bar più vicino a consumare un caffè.
-Ciao Peo! Ne ho una bella da vaccontavti! – Pietro parlava senza la erre- E’ uscita una legge sul facchinaggio vevamente sensazionale… E cominciò una dettagliata descrizione delle assurdità contenute nelle nuove norme.
Capitava spesso che i due ex colleghi commentassero insieme gli strafalcioni in cui incappava l’attività legislativa, che negli ultimi anni era divenuta sempre meno curata e sempre più incoerente a causa degli interventi delle lobbies. Era diventato quasi un passatempo, per loro, individuare i punti in cui, con colpi di mano realizzati in aula, venivano apportate alle proposte di legge modifiche e correzioni dagli effetti ridicoli e spesso deleteri. In questo caso gli era capitato di trovare, in una norma diretta alla tutela delle attività di facchinaggio, un capoverso per cui tre anni passati ad insaccare piume avrebbero costituito prova incontestabile dell’acquisita capacità professionale di tagliare alberi -ma solo se il taglio era diretto alla produzione di cellulosa…
Mentre Pietro intratteneva l’amico con amenità di questo tipo, con un godimento sadomasochista che solo anni di frequentazione della Pubblica Amministrazione possono giustificare, la coppia si avviava per via Garibaldi. Pietro sovrastava l’amico dall’alto della propria stazza gigantesca e gli rovesciava addosso torrenti di parole, mentre Pierandrea tentava vanamente di interloquire. La consumazione fu rapidamente effettuata in mezzo ad una folla di impiegati che prendevano la pausa di mezza mattina, poi i due rientrarono negli uffici camerali, per dedicarsi ognuno alle proprie attività.
Peo –lo chiameremo così anche noi, d’ora in poi- passò la mattinata nello svolgimento delle pratiche previste, senza che si verificassero problemi. Le attività di routine avevano su di lui un effetto calmante. La lettura dei giornali in sala d’attesa costituiva un esercizio da svolgere con calma e puntigliosità, concentrandosi sui paginoni culturali e su quelli relativi allo spettacolo, posto che ormai la politica gli sembrava una zuppa con poco sale e che la cronaca non lo aveva mai interessato più di tanto.
Dopo aver effettuato le operazioni richieste per l’iscrizione all’INAIL del proprio cliente, risalì verso Piccapietra con aria svagata e rallentando il passo. C’era da aspettare le tre, quando avrebbe incontrato la signora che così confusamente gli aveva raccontato il proprio problema, e intanto stava venendo il momento di mangiare qualcosa.
Era vicino a casa, ma non aveva nessuna voglia di salire nel suo appartamento e cucinare. Del resto ormai Genova aveva completato la sua trasformazione in città turistica e l’offerta di pasti di ogni tipo e per qualunque tasca era cospicua. Arrivato a De Ferrari decise di infilarsi nello stretto dei carruggi e scese fino in Piazza San Matteo.
Accanto alla vecchia bottiglieria, era stata aperta da qualche anno una trattoria che offriva, tra l’altro, piatti della tradizione genovese e che consentiva la degustazione di vini a bicchiere, facendo tela-mulino con l’esercizio a fianco, appartenente agli stessi titolari. Un’ottima zuppa di pesce -scorpena, pesce San Pietro e gallinella- e un bicchiere di vermentino per poco più di una diecina di euro lo misero decisamente di buon umore.
Uscito dalla trattoria diede un’occhiata all’orologio: erano solo le due: c’era tempo… ne approfittò per fare lentamente il giro della piazzetta, sulla quale si affacciano i bellissimi palazzi a suo tempo appartenuti ad Andrea Doria, soffermandosi a leggere le iscrizioni scolpite sui muri ed esercitandosi in tentativi di traduzione non sempre fruttuosi. Le difficoltà di traduzione dipendevano non solo dalla difficile lettura dei testi, maltrattati dal tempo, ma anche dal fatto che la sua mente tornava sempre più spesso alla telefonata della mattina: quel discorso confuso gli aveva instillato una buona dose di curiosità e l’avvicinarsi dell’ora dell’appuntamento cominciava a metterlo in agitazione. Si arrampicò su per il carruggio e salì nel suo appartamento. La cliente doveva arrivare a momenti.
[Continua…]