Il Contastorie

Rubrica a cura di Roberto Gerbi
Il piacere di scoprire storie curiose, divertenti, drammatiche che un appassionato di libri ha ritrovato in biblioteche polverose, vecchie riviste e, qualche volta, in internet


JOHANN GOTTFRIED SEUME, UNA PASSEGGIATA VERSO SIRACUSA
-Prima parte-

“Ovunque senti un canto, stai calmo,
senza paura di ciò che si racconta del paese;
ovunque si canti, nessuno viene derubato:
i malvagi non hanno canzoni”.
(Johann Gottfried Seume, “I canti”)

Wilhelm von Kügelen
Ritratto di Johann Gottfried Seume (1806)

A partire dalla seconda metà del Novecento il trekking è diventato per alcune persone una filosofia di vita e una passione, per molti altri un sano passatempo o una moda. Johann Gottfried Seume deve essere considerato uno tra i più importanti precursori di questa modalità di viaggiare, lentamente e con consapevolezza.

Egli sosteneva infatti che: “Chi va a piedi vede di più di chi viaggia in carrozza” e che “Camminare è l’attività più libera e indipendente, niente vi è di peggio che star seduti troppo a lungo in una scatola chiusa”.

Johann Gottfried Seume nacque il 29 gennaio 1763 a Poserna, un villaggio presso Lützen, nel Principato di Sassonia. Suo padre morì giovane e Seume lo ricorderà come “un onesto contadino, dotato di rigidi sentimenti morali, che, come me, aveva la malattia di non vedere un’ingiustizia senza disapprovare e protestare”. La poca terra posseduta dalla famiglia era andata persa durante la Guerra dei sette anni, appena terminata, ma l’intelligenza e la propensione agli studi del giovane lo fecero notare da un signore del luogo, il conte Friedrich von Hohenthal. Questi lo prese sotto la sua protezione e gli consentì, pur se tra stenti e incertezze, di proseguire negli studi.

Terminate le scuole superiori, si iscrisse alla facoltà di Teologia dell’università di Lipsia, perché le uniche carriere aperte al figlio di un contadino sembravano quella religiosa e l’insegnamento. Qui emerge però il carattere ribelle di Seume: fu accusato di non recarsi in chiesa regolarmente e di frequentare con più assiduità i teatri che i luoghi di preghiera. La lettura dei filosofi razionalisti, come Pierre Bayle, Shaftesbury e Bolingbroke, lo spinse su posizioni scettiche in campo religioso: da quel momento si definirà e sarà un cristiano critico.

Date queste premesse, da uomo onesto e coerente, non rinunciò a continuare gli studi teologici. Nel 1781, dopo aver venduto qualche libro per saldare i pochi debiti, senza salutare nessuno, partì da Lipsia con l’intenzione di raggiungere la Francia per entrare nella scuola di artiglieria di Metz e tentare la carriera militare, cosa che per la sua estrazione sociale gli era preclusa in Germania, dove i posti da ufficiale erano riservati ai nobili.

Al giovane era però riservato un destino ben diverso: come Candido, nel romanzo di Voltaire, reclutato a forza dagli arruolatori del re dei Bulgari, così il diciottenne Seume cadde nelle mani degli arruolatori del principe di Assia-Kassel, impegnato a vendere “volontari” all’Inghilterra, da impiegare nella guerra contro le colonie americane ribelli.

Nonostante un tentativo di fuga, che rischiò di costargli la forca, come disertore, Seume fu imbarcato a Brema su una nave inglese. Le condizioni del viaggio attraverso l’Atlantico furono tremende:

“Venimmo pigiati, accatastati, stratificati come aringhe. Per guadagnare spazio, non ci furono date amache, ma tramezzi sottocoperta, e, poiché i corridoi erano già abbastanza bassi, si giaceva addirittura in due strati. […] Nessuno poteva muoversi o cercare di dormire sul dorso. […] Il vitto era pessimo e nemmeno abbondante: oggi piselli e lardo e domani lardo e piselli; l’acqua, che sapeva orribilmente di zolfo, era imputridita. […] Puzzava più che Stige, Flegetonte e Cocito messi insieme e certi filamenti lunghi un dito la rendevano quasi consistente; non era possibile berla senza passarla per uno straccio, e ancora ci si doveva chiudere le narici”.

Nonostante tutto Seume mantenne un atteggiamento ottimista e, mentre sulla coperta della nave leggeva Orazio in latino, fu interpellato dal capitano della nave che gli mise a disposizione la sua biblioteca e gli fece avere di nascosto un supplemento di cibo.

Quando Seume arrivò in America, nel settembre del 1782, la guerra era di fatto conclusa, anche se il trattato di pace di Parigi sarà firmato solo l’anno seguente. Affermerà ironicamente di aver avuto “l’onore di aiutare il re d’Inghilterra a perdere le tredici province”.[1]

Passati alcuni mesi, fu ritrasportato in Europa ma le sue vicissitudini non erano affatto terminate. Riuscì a sfuggire agli Assiani, saltando dalla nave all’arrivo dall’America; nel porto di Brema, una lapide indica il luogo dove Seume si gettò dalla nave e alcuni cittadini lo aiutarono a fuggire.

1783 Il poeta fu salvato col suo volo dai cittadini di Brema

La libertà ebbe però una breve durata: finito nelle mani degli sbirri del re di Prussia Federico II, Seume fu di nuovo arruolato a forza e obbligato di guarnigione a Emden. Due volte tentò la fuga e due volte fu catturato. Processato come disertore rischiò di essere condannato a passare sotto le verghe ma ancora una volta fu la sua cultura a salvarlo. Sulla porta del corpo di guardia, il prigioniero scrisse un verso dall’Eneide di Virgilio, che esprimeva tristezza ma anche determinazione: “Tu ne cede malis sed contra audentior ito”, “Non lasciarti opprimere dalle calamità, ma va loro incontro con maggior coraggio”. Condotto davanti al Tribunale di guerra, uno degli accusatori affermò che l’esametro era sbagliato e il processo si trasformò in un esame di latino, da cui l’imputato uscì promosso e graziato, anche se non congedato.

Seume tentò nuovamente la fuga e ancora una volta fu processato. In questo caso lo salvò l’aver fatto, nel frattempo, da maestro ai figli di alcuni influenti cittadini della sede in cui era di guarnigione. I ragazzi chiesero ai genitori di aiutarlo e infine uno di loro pagò gli ottanta fiorini che servivano a riscattare lo schiavo soldato.

Tornato a Lipsia dopo cinque anni di peripezie, frequentò la locale università e si guadagnò da vivere con traduzioni e lezioni private.

Dimostrando una particolare incoerenza con tutti i suoi tentativi di sfuggire alla vita militare e di nuovo attirato dall’idea di diventare ufficiale, Seume si arruolò come segretario e ufficiale da campo del generale tedesco Otto Heinrich von Igelström, al servizio dell’esercito russo. Così andò per la seconda volta, come scrive lui stesso, “in guerra contro la libertà”, partecipando, nel 1794, alla repressione della rivolta dei polacchi guidati da Tadeusz Kościuszko. Durante la battaglia di Varsavia fu catturato dai polacchi, subì una dura prigionia e fu infine liberato, a seguito della definitiva vittoria russa.

Dopo il ritorno dalla campagna polacca, l’editore Göschen gli offrì l’incarico di rivedere una sua edizione di classici tedeschi; sebbene il lavoro gli piacesse, dichiarò immediatamente: “Io non resterò qui seduto più di due anni, poi farò un’altra scappata. Voglio andare a Siracusa”.

Quando un funzionario austriaco gli chiederà la ragione di tale viaggio dirà che vuole studiare Teocrito sul posto perché:

“Se avessi detto la pura verità, che volevo soltanto fare una passeggiata per rinnovare un poco l’aria dei polmoni, dopo che ero stato troppo tempo seduto a curare la stampa delle odi di Klopstock, mi avrebbe preso per un matto scappato dal manicomio”.

L’Italia che lo aspettava era sconvolta dalle guerre napoleoniche e dai molti eserciti stranieri che vi combattevano. Erano anni di drammatici cambiamenti in cui gli ideali della Rivoluzione francese, che Seume aveva vissuto come un’aurora colma di promesse, sono oscurati dall’ascesa di Napoleone. Questi, dopo il colpo di stato del 18 brumaio 1799, era stato nominato Primo Console e, nel 1801, mostrò la sua volontà di riappacificazione con la chiesa cattolica, firmando il concordato tra Repubblica Francese e Santa Sede. Seume, di simpatie repubblicane e anticlericali, non vide favorevolmente questi sviluppi della situazione politica. Per lui libertà, progresso, razionalità, diritti della persona e delle genti non erano semplici parole ma valori irrinunciabili.

È per questo che “fra il viaggio di Goethe, compiuto quattordici anni prima e pubblicato nel 1816, e questo del Seume sembra esser passato un tempo assai più lungo. […] Seume ci appare oggi sorprendentemente moderno. Il Goethe a Napoli vede e ammira, come una pittura, l’attività minuta di un popolo tutto preso dai piccoli e coloriti espedienti necessari per sopravvivere; ma non vede nient’altro, e pensa sul serio che il sole e la luce, necessari al quadro, siano sufficienti a compensare gli abitanti d’ogni altra carenza. A suo parere, un ‘cosiddetto’ mendicante di Napoli sdegnerebbe la carica di viceré in Norvegia o di governante della Siberia offertagli dall’imperatrice Caterina. […] Non così il Seume, in cui la coscienza civile balza sempre in primissimo piano, con risalto a volte aspro e dirompente. Nel libro di Goethe il tema dominante è l’arte, nel Seume la politica”.[2]

Non è un caso che la relazione del viaggio, il cui titolo originale è Spaziergang nach Syrakus, ossia Una passeggiata verso Siracusa, pubblicata in forma epistolare nel 1803, abbia avuto l’onore di essere immediatamente proibita dalla censura austriaca.

Il 9 dicembre 1801, Seume parte, a piedi, accompagnato da un amico, il pittore Veit Hanns Friedrich Schnorr von Carolsfeld, che però a Vienna rinuncerà a proseguire, preoccupato per i pericoli del viaggio.

Il bagaglio è ridotto al minimo; nel suo zaino di pelle di foca, sormontato da una testa di tasso, infila un frac, due corpetti, calzini, un paio di scarpe da riposo, una bottiglia in resina per l’acqua e le edizioni tascabili di Omero, Virgilio, Teocrito e altri classici. Indossa un giubbone polacco e ha ai piedi grossi scarponi chiodati. Completa lo scarso equipaggiamento un grosso bastone.

Al ritorno loderà il suo calzolaio, il valoroso Heerdegen di Lipsia:“Ti debbo dire che sono andato e tornato sempre con gli stessi stivali, senza dovermene procurare altri, e che questi sembrano avere ancora solidità sufficiente da partecipare a un’altra scarpinata del genere”.

Ben più rilevante è il suo bagaglio culturale che comprende la perfetta conoscenza, oltre che della sua lingua madre, di latino, francese, inglese e russo, una buona padronanza di italiano e polacco e la capacità di leggere in greco ed ebraico. È così “in grado di conversare alla pari con i mulattieri come con gli studiosi e con gli uomini politici, e sa ascoltare gli uni e gli altri senza riverenze per gli ultimi e senza supponenza nei confronti dei primi”.[3]

Altro suo pregio è uno stile di vita quasi ascetico, di cui scrive in una poesia:

“Non bevo vino, né caffè, né liquori,
non fumo tabacco né lo fiuto,
mangio i cibi più semplici,
e non sono mai stato malato,
né in mare né sotto i più diversi cieli”.

Viaggiare a piedi, sebbene notevolmente più scomodo e rischioso, gli permette di scoprire luoghi che normalmente sfuggono a chi, viaggiando in diligenza, è forzatamente vincolato alle tappe delle stazioni di posta.

In questa sede è impossibile dare conto di tutti gli avvenimenti, gli incontri, le avventure e le disavventure della lunga passeggiata che porterà Seume a Siracusa. Per chi fosse interessato esiste una traduzione italiana del libro, col titolo L’Italia a piedi, pubblicata da Longanesi nel 1973, mai ristampato, e oggi reperibile con difficoltà. È da questo libro che ho saccheggiato notizie e citazioni.

Luogo di partenza è Grimma, località a una ventina di chilometri da Lipsia, dove si trova la sede della casa editrice Göschen. La prima parte del viaggio si svolge all’interno dei paesi della monarchia asburgica: passa per Praga, Vienna, Graz, Lubiana, Postumia, dove effettua una avventurosa visita alle grotte.

Il 23 gennaio 1802 giunge a Trieste, dove trova alloggio “nella cosiddetta Locanda Granda, un vasto fabbricato, la stessa in cui Winckelmann fu ucciso a tradimento dal suo servitore.[4] La mia veduta verso il porto è davvero bella, e questa è forse proprio la camera in cui avvenne il misfatto. Ma ormai la vicenda è già uscita dalla memoria dei più”.

Il 3 febbraio è a Venezia. In poche ore vede più di venti chiese, dalla cattedrale di San Marco alla più piccola cappella. Proprio come fanno oggi i turisti. L’atteggiamento della popolazione verso gli austriaci, che dopo il trattato di Campoformio hanno occupato la città, non è certo favorevole e gli occupanti, con il loro contegno, non fanno nulla per migliorarlo. Dovunque, a Rialto come sull’isola di San Giorgio, sono piazzate batterie di cannoni.

La città gli appare ridotta alla miseria: si vedono donne di buona famiglia mendicare alla porta delle chiese. Alla Giudecca la situazione è ancora peggiore, “ma proprio per questo vi sono meno mendicanti, forse perché nessuno può sperare di ricevere una sia pur piccola elemosina”.

Una sera, in piazza San Marco, è abbordato da due fedeli di Afrodite Pàndemos che lo prendono amichevolmente a braccetto e, nonostante le sue preghiere, continuano a prendersi confidenze. “Erano in verità due graziose peccatrici, che si comportavano con finezza e decenza. Nel mio italiano elementare le esortai alla meglio a lasciarmi in pace. Non giovò a nulla; di lontano qualcuno cominciava a ridacchiare e mi giunse anche qualche grossa risata. Infatti la scena doveva essere assai comica. Infine un’altra di quelle ninfe mi s’attaccò al braccio, facendo moine. M’arrabbiai e cominciai a battere sul selciato col mio pesante bastone e a imprecare in russo, aggiungendo qua e là in italiano “impudenza” e “senza vergogna” e infine battei così enfaticamente sul selciato col randello, che le due creature ripresero spaventate la loro strada”.

L’albergo dove Seume alloggia guarda su piazza San Marco; ha modo di vedervi il luogo dove fino al 1797 stavano i cavalli di bronzo che Napoleone ha portato a Parigi, dove resteranno fino al 1815, quando saranno riportati a Venezia.

Il viaggio prosegue per Padova, Ferrara, Bologna e, seguendo la via Emilia, Rimini.

A Senigallia ha “per la prima volta il piacere d’assistere a un combattimento italiano di tori, nel quale i cani erano lanciati in aria a grande altezza, e uscivano dall’arena perdendo sangue; e sembrava che mezza Senigallia si divertisse un mondo”.

Ad Ancona, “La gente non fa che lamentarsi della miseria, ma a tutte le ore del giorno folleggia il carnevale nell’intera città, tanto che i francesi hanno dovuto raddoppiare la guardia di polizia, per impedire che la gente muoia schiacciata nella calca incredibile. […] La folla miserabile che si lamenta della fame sosteneva accanite battaglie con confetti d’ogni specie; ma soprattutto si sparavano amichevoli e innocue cannonate di granturco, che veniva portato in ceste e venduto per servir da munizione. […] Certamente il giorno dopo i poveri avrebbero raccolto quel che non era stato pestato e triturato nel fango. E con questo bell’argomento si giustifica lo sperpero. A me sembra questo un modo curioso, direi folle, di distribuire elemosine”.

Da Ancona si convince a non proseguire lungo l’Adriatico, attraverso l’Abruzzo, come era sua intenzione. Gli dicono che: “Ce sont des sauvages sans entrailles. […] On vous prendra pour François et on vous coupera la gorge sans pitiè”.[5] Decide quindi di raggiungere la valle del Tevere, attraversando gli Appennini.

La prima tappa è Loreto, dove si reca a visitare il santuario, dà un’occhiata ai quadretti votivi e ai numerosissimi confessionali.

“La contrada di Loreto è un paradiso di fertilità, e gli angeli sono stati assai giudiziosi, perché, non potendo lasciare la casetta nella Terra promessa, dalla Dalmazia la trasportarono per l’aria fino a qui; certamente sta un po’ meglio di quanto sia stata là, per così dire, fra le grinfie degli infedeli. A dire il vero, a un certo momento si temette che anche qui la miscredenza dovesse prendere il sopravvento, e si pensò a un terzo trasporto”.

I nuovi miscredenti sono i francesi, che avevano depredato il tesoro della basilica e portato in Francia l’immagine della Madonna. Seume, da buon anticlericale, non perde l’occasione per ironizzare sulle credenze cattoliche. Dopo il rapimento della Madonna, “arriva un monaco e dice “Io l’avevo temuto, che questa miracolosa immagine sarebbe stata rapita, perciò l’avevo nascosta e sostituita con un’altra: ecco la vera”. Questa viene esposta alla venerazione dei fedeli, prima che a Roma se ne sappia qualche cosa. […] Ora si aprono trattative a Roma sull’immagine che è a Parigi, e i francesi contriti la rimandano indietro. Ci si domanda: “Qual è la vera?” Quanto a bruttezza una vale l’altra, e naturalmente tutt’e due fanno miracoli a gara”.

Anche nel percorso verso la valle del Tevere, “non mancavano le storie d’assassini e d’assassinati, e in alcune gole dei monti capitava di frequente di veder gambe e braccia d’impiccati pendenti dagli olmi come orribili monumenti ammonitori; ma io possiedo il dono d’apparire talvolta più povero e più scemo di quanto veramente sia, e così arrivai felicemente al Campidoglio”.

Seguendo il tracciato della via Flaminia, arriva a Macerata, e quindi a Foligno. Passa nei pressi delle fonti del Clitumno, che “adesso vengono contaminate con perfetta incoscienza da asinai e lavandaie, quantunque siano belle come al tempo in cui Plinio le descrisse con tanto entusiasmo. Certamente qui più non esistono i boschetti sacri e i molti templi; ma la contrada è dolcissima e io, assetato, scesi devotamente alla fonte e bevvi a grandi sorsate l’acqua della sorgente maggiore”.

Prosegue quindi per Spoleto a Terni. Lo stesso giorno, nonostante avesse nelle gambe gli oltre venti chilometri tra le due città, ne percorre altri otto, sul sentiero pietroso che sale fino alla cascata del Velino: “Ne valeva la pena. La giornata era magnifica, senza una nuvola e soffiava un venticello tiepido che rinfrescava soltanto nei pressi della cascata. Il sole era già al tramonto e riempiva di luce chiarissima e brillante tutta la gola del Nera, mentre in basso, entro il pulviscolo della cascata si era formato un grande e intenso arcobaleno.

Io mi misi di contro, su una roccia, e per alcuni minuti dimenticai tutto. […] Difficilmente la mano dell’uomo avrebbe saputo creare qualcosa di più imponente, di più affascinante di quella cascata”.

James Hakewill – Cascata di Terni (1816-17)

Il 2 marzo arriva a Roma. La prima impressione non è buona; i gendarmi di guardia alla porta del Popolo gli chiedono il passaporto e, dopo averglielo restituito, pretendono una mazzetta: “Qualche cosa della bona grazia pella guardia”.[6] Si cominciava bene e dovetti tirar fuori alcuni paoli”.

A Roma sosta solo tre giorni, durante i quali incontra alcuni connazionali ma soprattutto lo scultore Antonio Canova, per cui nutre una sconfinata ammirazione.

A Napoli alloggia in casa di un privato, a Monte Oliveto, a due passi da via Toledo. In giro per la città lo accompagna un vecchio genovese che ha girato mezza Europa e fa il servo di piazza e anche un po’ da cicerone.

“Nelle catacombe strisciai carponi per oltre un’ora”. Oggi, per fortuna dei turisti, la visita alle catacombe di san Gennaro è stata resa molto più agevole.

Tappe obbligate sono la Cattedrale e Santa Chiara, che “ha il chiostro di monache più ricco di tutta la città, e una chiesa davvero magnifica dove vengono sepolti anche gli infanti reali.[1] Le monache sono tutte delle più nobili famiglie e si è cercato di circondare del maggior splendore possibile la loro follia e la loro miseria”.

Visita la tomba di Virgilio, lamentando che non sia più possibile trovarvi una sola foglia d’alloro, di cui la zona è stata spogliata da sciocchi adoratori.


[1] Durante la Seconda guerra mondiale, il bombardamento del 4 agosto 1943 da parte degli alleati provocò un incendio durato due giorni, che distrusse quasi completamente gli interni della chiesa e causò la perdita di tutti gli affreschi eseguiti nel XVIII secolo e di gran parte di quelli eseguiti da Giotto, di cui si sono salvati solo pochi frammenti.

[Continua…]

Roberto Gerbi

Il Contastorie” già pubblicati


[1] In totale nel corso della guerra d’America gli stati tedeschi impiegarono al servizio della Gran Bretagna 29.867 ufficiali e soldati; le perdite furono elevate: 1.200 uomini morirono in combattimento e 6.354 per malattie o incidenti, i disertori furono circa 5.000; al termine del conflitto tornarono in Germania 17.313 soldati.

[2] Alberto Romagnoli, “Introduzione” a “L’Italia a piedi”.

[3] Paolo Repetto, “Johann Gottfried Seume”.

[4] Lo storico dell’arte e archeologo Johann Joachim Winckelmann, divenuto soprintendente alle antichità di Roma nel 1764, si recò nel 1768 a Vienna, dove fu ricevuto con grandi onori dall’imperatrice Maria Teresa e dalla corte imperiale, ricevendo in dono alcune medaglie d’oro e d’argento. Sulla via del ritorno sostò presso la Locanda Grande di Trieste, in attesa di una nave per Ancona, da dove avrebbe fatto ritorno a Roma. L’8 giugno 1768 Francesco Arcangeli, un cuoco pregiudicato nativo di Pistoia, lo accoltellò, con l’intenzione di derubarlo delle medaglie ricevute in regalo alla corte viennese. Mortalmente ferito, morì poche ore dopo l’aggressione.

[5] “Quelli sono dei selvaggi senza cuore. […] Vi prenderanno per francese e vi taglieranno la gola senza pietà”.

[6] In italiano nel testo.

[7] In italiano nel testo.

image_printScarica il PDF