FOGLI SPARSI
Vagabondaggi di riflessioni e ricordi, appuntati senza un ordine preciso,
su fogli sparsi
Rubrica a cura di Grazia Tanzi
Il piccolo principe è un celeberrimo racconto di Antoine de Saint-Exupéry, pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1943, ha venduto più di un centinaio di milioni di copie e pare che sia stato tradotto in circa 500 lingue.
Tutti lo conoscono, anche se moltissimi non lo hanno letto per intero e si limitano a citarne alcune frasi, che ritengono altamente significative e poetiche. Sul web ne circolano a dozzine, estrapolate dal testo, inviate con la messaggistica e pubblicate sui social.
Di solito il libro viene ricordato nostalgicamente, come una lettura infantile intrisa di magia, dai contorni vaghi. Chi lo ha letto da adulto ne parla in toni sognanti ed entusiastici, come di un capolavoro, elogiandone i buoni sentimenti, gli imsegnamenti, i valori senza tempo, la dolcezza, il fascino, la magia ecc. ma senza mai portare un argomento ragionato, solo espressioni di intense emozioni.
Io vorrei qui analizzare criticamente il testo, per dimostrare che non è un libro per bambini, nonostante sia considerato tale e consigliato a scuola; voglio inoltre provare che è diseducativo, perché veicola messaggi negativi. Sono consapevole di far parte di una sparuta minoranza, ed è molto probabile che le mie argomentazioni susciteranno indignati dissensi e polemiche, è normale quando si infrange un idolo.
La storia è molto semplice: un pilota (quale era l’autore nella realtà) è costretto ad un atterraggio di fortuna nel deserto del Sahara; mentre tenta di riparare il suo velivolo, si trova improvvisamente davanti un bambino, un principino, proveniente da un lontano asteroide. Ha inizio così una lunga conversazione nella quale il piccolo parlerà del luogo da cui proviene, racconterà i suoi viaggi interplanetari e riferirà degli strani personaggi incontrati.
Il primo capitolo è la chiave per interpretare tutto il racconto e comprendere i motivi dell’autore: a sei anni, i “grandi” lo hanno umiliato disprezzando, con superficiale supponenza, i suoi disegni; da qui l’inadeguatezza futura dell’autore al mondo adulto, nel quale reciterà la sua parte parlando […] di bridge, di golf, di politica, di cravatte, ma non integrandosi mai: Così ho trascorso la mia vita solo, senza nessuno cui poter parlare. Da notare “nessuno cui parlare” non “con cui” parlare; parlare a qualcuno è ben diverso dal parlare con qualcuno. Saint-Exupéry infatti in questa storia parlerà da solo, a sé stesso, perché il piccolo principe alieno altri non è che l’alter ego del suo creatore. Una delusione infantile, banale, lo ha segnato per sempre, facendone un eterno bambino, un esule dell’infanzia alla quale guarda come ad una mitica età dell’oro, coltivando un impossibile nostos. Segue una bella tirata sulla mentalità degli adulti, materialisti, che badano solo ai numeri e al denaro, che non capiscono le ragioni del cuore.
Così se voi gli dite: «La prova che il piccolo principe è esistito, sta nel fatto che era bellissimo, che rideva e che voleva una pecora. Quando uno vuole una pecora è la prova che esiste».
Be’, loro alzeranno le spalle, e vi tratteranno come un bambino. Ma se voi invece gli dite: «Il pianeta da dove veniva è l’asteroide B 612» allora ne sono subito convinti e vi lasciano in pace con le domande. Sono fatti così.
Ecco la fallacia del ragionamento: mettere in opposizione il linguaggio della realtà, della logica, con quello della fantasia, le ragioni del cuore contro quelle dell’intelletto.
[…] Ma certo, noi che comprendiamo la vita, noi ce ne infischiamo dei numeri!
La grettezza di un certo materialismo va stigmatizzata, ripeto, ma logica e fantasia non sono antitetiche semmai complementari, noi che comprendiamo la vita “Noi” chi? A quale titolo “voi” vi ritenete depositari di una simile Verità, con la maiuscola? Ma chi mai può dire di comprendere la vita?
Ce ne infischiamo dei numeri, quindi dei dati della realtà, del sapere condiviso, intersoggettivo. Vale solo ciò che “noi” e pochi altri eletti sentiamo.
I bambini sono piccoli, ma non stupidi, sanno distinguere benissimo la realtà dalla fantasia, e si comportano diversamente quando si inseriscono in questi due ambiti. Si muovono nella realtà gradatamente e correttamente grazie al loro processo di crescita, e all’apporto delle diverse istanza educative con le quali vengono a contatto. Apprezzano tuttavia il mondo magico delle fiabe o dei supereroi, e qui ci sono tonnellate di libri che spiegano perché, ma non pretendono che la zucca sul banco del fruttivendolo si trasformi in carrozza. E questo è solo l’inizio, il bello deve ancora venire.
Il tema ricorrente ed esplicito dei primi quattro capitoli quindi, è che gli adulti non capiscono niente, che è inutile parlare con loro, che è meglio vivere soli. I modelli presentati sono tutti negativi. Non è un bel messaggio, genera insicurezza nel bambino che deve aver fiducia nelle figure che lo guidano, che deve essere aiutato, anche attraverso le storie, a capire che potrà diventare un adulto indipendente e consapevole. Le fiabe tradizionali lo fanno, l’eroe approda al lieto fine dopo una serie di prove, difficili, ma superate, anche grazie all’aiuto di personaggi straordinari, che gli daranno i mezzi giusti perché lui ha dimostrato di meritarli.
In un buon libro, per bambini o per adulti, la morale non è esplicita, come precetto o divieto, ma scaturisce dalla storia e dal carattere dei personaggi, interpretati autonomamente dal lettore. Gli insegnamenti nelle fiabe non sono mai apertamente moralistici, ma allusivi e il bambino li scopre da sé.
Andando avanti nella storia veniamo a sapere che il pianeta da cui proviene il piccolo principe è infestato da arbusti di baobab che bisogna estirpare.
Infatti, sul pianeta del piccolo principe ci sono, come su tutti i pianeti, le erbe buone e quelle cattive. […] se si tratta di una pianta cattiva, bisogna strapparla subito, appena la si è riconosciuta. C’erano dei terribili semi sul pianeta del piccolo principe: erano i semi dei baobab. Il suolo ne era infestato. Ora, un baobab, se si arriva troppo tardi, non si riesce più a sbarazzarsene. Ingombra tutto il pianeta. Lo trapassa con le sue radici. […]
«È una questione di disciplina», mi diceva più tardi il piccolo principe. «Quando si ha finito di lavarsi al mattino, bisogna fare con cura la pulizia del pianeta. Bisogna costringersi regolarmente a strappare i baobab […]. È un lavoro molto noioso, ma facile». E un giorno mi consigliò di fare un bel disegno per far entrare bene questa idea nella testa dei bambini del mio paese.
L’allegoria sulle male erbe è fin troppo chiara. Terribile l’immagine dei bambini costretti ad estirpare le piante “nocive” che, crescendo, diventeranno baobab. È evidente che non si tratta di erbe vere, ma simboliche, e quali sono? Forse coloro che non rientrano fra quelli, visti sopra, che hanno compreso la vita? Quelli che hanno un’idea diversa? Cosa o chi sono i baobab che minacciano i pianeti? Devo ammettere che questo brano ha provocato in me una sgradevole inquietudine. Come potrebbe interpretarlo un bambino? Prendendolo alla lettera? Contenuto banale, innocuo, e di nessuna utilità formativa, si sa che le erbacce vanno tolte, nei giardini, nei vasi da fiori, ai bordi delle strade. Ma questo brano non è rivolto ai bambini, e il suo senso è allegorico.
Andiamo avanti nella storia. Il povero pilota è davvero nei guai, la sua riserva d’acqua si va estinguendo e i tentativi di riparare il motore sono inutili. Mentre sta lì con un martello fra le mani sporche di grasso, probabilmente con una gran voglia di imprecare, il bambino, petulante, lo tormenta con una mitragliata di domande sulle spine dei fiori che pare non servano a nulla, perché le pecore i fiori li mangiano lo stesso. Ora questa potrebbe essere una interessante questione scientifica, qui invece il tutto vira in riflessioni pseudo poetiche.
Se qualcuno ama un fiore, di cui esiste un solo esemplare in milioni e milioni di stelle, questo basta a farlo felice quando Io guarda.
E lui si dice: Il mio fiore è là in qualche luogo.
Ma se la pecora mangia il fiore, è come se per lui tutto a un tratto, tutte le stelle si spegnessero!
Questa viene considerata poesia, de gustibus.
Segue uno degli episodi fra i più citati del libro, giudicato molto significativo, ma che esaminato con occhio critico si rivela assai inquietante. Innanzi tutto una precisazione lessicale: fiore, fleur in francese, è femminile, alcune traduzioni per mantenere il genere hanno preferito rosa; si vedrà che non è un dettaglio da poco.
Un mattino sul pianetino spunta un fiore diverso da tutti gli altri, nato da un seme venuto da lontano. Il suo sbocciare è lungo e laborioso.
ll fiore non smetteva più di prepararsi ad essere bello, al riparo della sua camera verde. Sceglieva con cura i suoi colori, si vestiva lentamente, aggiustava i suoi petali ad uno ad uno. Non voleva uscire sgualcito come un papavero. Non voleva apparire che nel pieno splendore della sua bellezza. Eh, sì, c’era una gran civetteria in tutto questo! La sua misteriosa toeletta era durata giorni e giorni.
Naturalmente è straordinario, e straordinariamente odioso. Si presenta fingendo di essersi appena svegliato, mentre erano giorni e giorni che lavorava alla sua apparizione, che naturalmente avviene contemporaneamente al levarsi del sole. Sa di essere bello e lo dice. Subito dopo, con piglio autoritario e capriccioso, comincia a pretendere le cure.
Chiede di essere innaffiato subito, giustifica la presenza delle spine con la paura delle tigri, che peraltro non ci sono sul pianeta.
Così l’aveva ben presto tormentato con la sua vanità un poco ombrosa.
Un rompiscatole, pretende una campana di vetro per ripararsi dal freddo della notte e tossisce per far sentire in colpa il principino.
Così il piccolo principe, nonostante tutta la buona volontà del suo amore, aveva cominciato a dubitare di lui.
«Avrei dovuto non ascoltarlo», mi confidò un giorno, «non bisogna mai ascoltare i fiori. Basta guardarli e respirarli. Il mio, profumava il mio pianeta, ma non sapevo rallegrarmene. […]. E mi confidò ancora: «Non ho saputo capire niente allora! Avrei dovuto giudicarlo dagli atti, non dalle parole. Mi profumava e mi illuminava. Non avrei mai dovuto venirmene via! Avrei dovuto indovinare la sua tenerezza dietro le piccole astuzie. I fiori sono così contraddittori! Ma ero troppo giovane per saperlo amare».
Non ci vuole troppa perspicacia per capire che questa bella allegoria adombra il rapporto dell’autore con una donna, una bella coppia: immaturo lui, vittimista e capricciosa lei. Ma ciò che mi fa davvero arrabbiare è quel i fiori sono così contraddittori, che tradotto diventa: le donne sono così incoerenti, e infatti non bisogna mai ascoltarle.
Il capitolo seguente è la logica conclusione del dialogo suddetto. Il principino dà una bella rassettata al suo pianeta, di cui è l’unico abitante, e si prepara alla partenza pensando di non tornare più.
E quando innaffiò per l’ultima volta il suo fiore, e si preparò a metterlo al riparo sotto la campana di vetro, scoprì che aveva una gran voglia di piangere.
«Addio», disse al fiore. Ma il fiore non rispose. […]
Il fiore tossi. Ma non era perché fosse raffreddato.
«Sono stato uno sciocco», disse finalmente, «scusami, e cerca di essere felice».
Fu sorpreso dalla mancanza di rimproveri. […]
«Ma sì, ti voglio bene», disse il fiore, «e tu non l’hai saputo per colpa mia. Questo non ha importanza, ma sei stato sciocco quanto me. Cerca di essere felice.[…]
«Non indugiare così, è irritante. Hai deciso di partire e allora vattene».
Perché non voleva che io lo vedessi piangere. Era un fiore così orgoglioso…
Questa non è una scena da libro per bambini, ma quella di un addio, da mediocre romanzo sentimentale, di cui molti avranno fatto esperienza; gli addii sono sempre banali, facciamocene una ragione.
Basta così, carta canta, ma si sa, chi legge interpreta a suo piacimento, e la quasi totalità dei lettori ha visto questa scena come molto poetica e delicata. Invece quelli che non vanno al passo, pochi, la trovano insulsa e melensa. (Continua)