Il Contastorie – Quando la bicicletta faceva male
Quando la bicicletta faceva male
A partire dal 1890 la classe media su entrambe le sponde dell’Atlantico fu colta da un insaziabile desiderio per il ciclismo. Le persone più istruite iniziavano a comprendere che non bastavano pulizia ed igiene a proteggere dalle malattie. Molti medici dichiaravano entusiasti che la bicicletta era una vera panacea per molti mali causati dalla moderna vita urbana, come dispepsia, anemia, obesità, asma, vene varicose, disturbi cardiaci, diabete e nevrastenia, per citarne solo alcuni.
Benjamin Ward Richardson, forse il più ardente fautore delle due ruote, affermava che il principale obiettivo della scienza medica era la produzione di “umana felicità” e considerava l’esercizio fisico un mezzo importante per raggiungere tale fine.
Joseph Bishop, autore di Social and economic influence of the bicycle, giungeva ad asserire nel 1896: “We have become a race of Mercury”, “Siamo diventati come Mercurio”.
Nubi minacciose gravavano però su queste gloriose prospettive. Il ciclismo era fin troppo divertente, così da poter diventare causa della propria rovina. L’eccitazione di sfrecciare sulla strada, la sfida di andare sempre più velocemente e la certezza che quello sforzo fosse anche utile per il corpo e la mente, spingeva i ciclisti oltre a ragionevoli limiti di velocità e di distanze percorse. Le “Century Runs” (corse ininterrotte di cento e più miglia) diventarono prove di virilità, seconde solo allo “scorching”. Il termine si potrebbe definire come un impulso che dominava la ragione del ciclista e lo spingeva a superare qualsiasi oggetto in movimento che gli si presentasse davanti. Negli Stati Uniti aumentarono gli arresti per “ furious riding” e i magistrati accompagnarono le multe con avvisi che “una velocità superiore a sei miglia all’ora non è sicura per le strade di una grande città”.
L’opinione pubblica era dovunque divisa tra innovatori e tradizionalisti. Il Corriere della Sera, nel 1890, sosteneva: “La bicicletta è un mezzo di trasporto pericoloso. I ciclisti sono spesso vittime di incidenti stradali e con animali”.
Anche i medici non poterono più ignorare le lesioni che i ciclisti si procuravano e procuravano ai pedoni. Dapprima la preoccupazione era diretta quasi interamente ai danni prodotti dagli incidenti ma, in seguito, le patologie da bicicletta occuparono pagine e pagine delle pubblicazioni mediche.
La patologia collegata all’abitudine dei pedalatori di stare a lungo con la schiena incurvata fu battezzata “kyphosis biciclistarum”.
S’imputarono alla bicicletta l’insorgenza di appendiciti (dovute alla contusione dell’appendice da parte del muscolo psoas), di ernie inguinali, del “mal di gola del ciclista”, per l’inalazione di aria fredda, polvere e batteri.
Fu chiamato “cuore di ciclista” una tachicardia cui si riteneva fossero destinati i ciclisti dopo alcuni anni di attività; e la “neurosi del ciclista” era quella che si supponeva venisse provocata dalla pressione del sellino sui nervi della zona pelvica.
Il British Medical Journal, la più autorevole rivista di medicina inglese, sostenne che la bicicletta avrebbe potuto esacerbare i problemi toracici, causare uretriti ed esprimeva infinite preoccupazioni per spostamenti uterini, distorsioni pelviche e rischi per la gravidanza, quando a pedalare fosse una donna.
Una preoccupazione particolare per il sesso debole era costituita dal manifestarsi della cosiddetta “faccia da bicicletta”. La dottoressa Arabella Kenealy avvisò le ragazze che l’esagerato impiego della bicicletta avrebbe conferito al loro viso tratti maschili, facendogli perdere il fascino femminile. Peggio ancora, l’arrossamento delle guance, dovuto all’esposizione solare, e la tensione dei muscoli del viso avrebbero potuto provocare deterioramento dei nervi, mal di testa e, in alcuni casi, persino la demenza.
Le preoccupazioni della dottoressa Kenealy avevano origine dalle sue posizioni circa l’eugenetica. I tratti femminili erano presumibilmente ereditati lungo la linea femminile e le donne che deviavano dall’ideale vittoriano d’incarnare l’”angelo della casa” avrebbero causato la corruzione della razza, trasmettendo queste caratteristiche alle figlie.
Tra i pericoli della bicicletta fu annoverata anche una nuova malattia mentale: l’”ebefrenia biciclica”, un tipo particolare di impoverimento mentale che colpiva chi abusava della bicicletta. Cesare Lombroso ne descrive un caso in Delitti vecchi e delitti nuovi, libro del 1902:
“Nè manca il biciclo fra le cause della pazzia. Un ragazzo di buoni operai, che non aveva presentato nulla di anomalo fino ai 13 anni, all’iniziarsi della pubertà soffre prima l’ossessione di possedere una fisarmonica, poi lo prende una smania irrefrenabile di bicicli, e tutto li giorno, essendo povera la famiglia, medita i mezzi di rubarli senza esserne scoperto, sicchè i parenti se ne allarmano come di pazzia gravissima e criminale, e mi chiamano un parere; io li consiglio d’affittare per lui un biciclo ogni giorno almeno per qualche ora, e la malattia scomparve”.
DONNE IN BICICLETTA
Come abbiamo visto molti dottori ritenevano che la salute delle donne potesse essere seriamente compromessa dall’uso della bicicletta. Il dibattito più aspro non si scatenò però per reali o presunti motivi sanitari; la bicicletta fu subito vista come un incubo dai misogini e come uno strumento di liberazione per i movimenti femministi. Infatti, l’ascesa del nuovo mezzo di circolazione coincise e non mancò di influire sulla prima ondata di femminismo, il movimento “New Woman”,[1] e sulla campagna per il diritto al voto delle donne.
Il punto di vista delle donne che andavano indicando la strada per un nuovo paradigma di femminilità, da opporre a quello vittoriano, può essere sintetizzato in queste righe scritte da Louise Jeye nell’agosto del 1895, per la rivista Lady Cyclist:
“C’è una nuova alba d’emancipazione ed è causata dalla bicicletta. Libera di pedalare, libera di muoversi per il paese glorioso, senza l’ostacolo di accompagnatori, la ragazza d’oggi può provare la propria vera indipendenza e, mentre rafforza la propria costituzione fisica, sta sviluppando una mente migliore. […] Come limitata e angusta sembrava la vita prima che vi entrasse la bicicletta”.
Allo stesso modo la scrittrice e suffragetta Alice Meynell sosteneva che la bicicletta poteva migliorare la costituzione delle donne, le cui capacità fisiche e mentali erano limitate solo dalla sottomissione agli uomini. La dottoressa americana Sarah Hackett Stevenson concordava sul fatto che la bicicletta fosse un mezzo eccellente per lo sviluppo delle donne e che la perduta bellezza di molte donne delicate poteva essere recuperata pedalando.
Dall’altro lato si levavano gli scudi dei conservatori. Il giornale La Stampa, nel 1895, sosteneva che “La bicicletta è un mezzo di trasporto poco adatto alle donne. Può provocare incidenti e compromettere la loro femminilità”. Da molte parti si affermava che la bicicletta mettesse in pericolo la decenza, il buoncostume, la moralità di signore e signorine.
Alcuni medici arrivarono a dichiarare che i sellini delle biciclette avrebbero potuto incoraggiare le donne alla masturbazione, e renderle ninfomani o sterili.
Anche il modo di vestire venuto di moda per andare in bicicletta era messo alla berlina. Una canzone, a firma di Sbarra, bollava la moda femminile dei calzoni (la juppe-culotte), invitando i mariti a diffidare di una “donna così screanzata” che “la gonna alle ortiche ha gettata”:
“La donna che voi qua vedete
non veste da uomo per caso
ha preso il marito pel naso…
comanda e si veste così.
Aprite bene gli occhi bonomini
non siate così babbuini
giammai dei vostri bambini
sia madre una… giuppe-culò.
Ah! Ah! Ah!
Donna onesta tal moda non fa.
Curiosamente, un’altra categoria di persone cui l’utilizzo della bicicletta fu vietato o fortemente sconsigliato, se non in circostanze particolari, era quella dei preti. In parte le ragioni erano legate alla sconvenienza dell’immagine che veniva data; ad esempio, a Milano nel 1892, la Curia ne vietò l’uso perché sarebbe stato indecoroso “ammirare un sacerdote far capriole comiche per salire su di una bicicletta da laico, e quindi innanzi, dopo salito in sella, proseguire in goffa forma colla talar sottana a cavalcioni del telaio. Il prete ha bisogno di compostezza onde non offendere l’estetica e la decenza”.
Le ragioni vere però erano altre, legate all’avversione della Chiesa per il “modernismo”, di cui la bicicletta rappresentava un simbolo importante; inoltre, le biciclette offendevano la morale comune, dando scandalo ai fedeli, provocavano incidenti e agevolavano la dissipazione dei sacerdoti che potevano fare facili spostamenti favoriti dal nuovo mezzo.
La Sacra Congregazione del Concilio, organo della Curia romana cui spettava il compito di vigilare sul comportamento del clero, stabilì il divieto dell’uso del velocipede al pari dei divieti relativi alla frequentazione di osterie e teatri o alla pratica del gioco d’azzardo. Veniva fatta eccezione solo per i casi in cui il prete dovesse somministrare d’urgenza l’estrema unzione, stabilendo però che, in caso di uscita notturna, l’uso del velocipede era consentito solo se accompagnato da un confratello.
Strenuo avversario dell’uso delle due ruote fu Giuseppe Sarto che, come vescovo della diocesi di Mantova, prima di diventare papa col nome di Pio X, stabilì che l’utilizzo del velocipede non era consentito al clero “in quanto cosa che lo avvicina alle abitudini dei secolari attribuendo al prete vanità e leggerezza”. Divenuto papa, restò fermo su posizioni di proibizione assoluta, confermando il divieto dell’utilizzo anche nell’enciclica Pascendi, nella quale si condannava ogni modernità.
CESARE LOMBROSO E IL CICLISMO NEL DELITTO
L’atteggiamento verso la bicicletta di Cesare Lombroso, in più celebre e ascoltato psichiatra e criminologo italiano a cavallo tra Ottocento e Novecento, fu ambivalente. All’origine della iniziale avversione verso le due ruote potrebbe trovarsi un episodio che lo riguardava personalmente. Le figlie Paola e Gina, che nel 1906 pubblicarono Cesare Lombroso. Appunti sulla vita – Le opere, raccontano che il padre “a sessant’anni [dunque intorno al 1895] ha voluto incominciare ad andare in bicicletta e andava impavidamente traversando i viali proprio nell’ora del corso delle carrozze, finché una volta andò sotto una carrozza e fu miracolo se ne uscì incolume”.
Da queste premesse non potevano che nascere preoccupazioni che furono esplicitate su un articolo apparso sulla rivista Nuova Antologia nel 1900, Il ciclismo nel delitto, poi rivisto e ampliato in un capitolo del volume Delitti vecchi e delitti nuovi, pubblicato due anni più tardi:
“Ogni nuovo meccanismo, che entri nei congegni della vita umana, aumenta le cifre e le cause della delinquenza come della pazzia. […]
Nessuno però dei nuovi congegni moderni ha assunto la straordinaria importanza del biciclo, sia come causa che come stromento del crimine; e a tal punto che se una volta si pretendeva (invero con un po’ di esagerazione) di trovare nella donna il movente di ogni delitto virile nel troppo celebrato: Cherchez la femme, – si potrebbe con minor forse esagerazione sentenziare ora: Cercate il biciclo – in gran parte dei furti e delle grassazioni dei giovani, sopratutto della buona società, almeno in Italia”.
La bicicletta è sia causa che strumento di delitti:
“Bicicletta causa di delitti. — Certo è che molti giovani, per lo più della buona società, dotati o fiduciosi di esser dotati di una grande forza muscolare e mossi da una grande vanità di farsi presto una strada nel mondo, di superare senza aver veri meriti gli altri, che è una delle tendenze maggiori dei nostri tempi (e più nei giovani delinquenti); non essendo abbastanza ricchi per avere un biciclo costoso che li conduca ai trionfi ciclistici commettono un furto, e perfino una grassazione con omicidio, per poter raggiungere la desiderata gloria atletica e sportiva”.
Lombroso non manca di fare esempi:
“Così io ho veduto a Torino due fratelli giovanissimi, di buona famiglia, frequentatori però di cattive compagnie, precoci in amore e nell’uso del vino, divenire ladri appena passata la pubertà, per causa del biciclo. Uno di loro nella speranza di diventar un grande ciclista, essendo già abile ginnasta, stimola, a 15 anni, due amici a scassinare un magazzino di bicicli; ed è colto con essi sul fatto: e da allora in poi, finge mutismo ostinato, rifiuta il cibo, lacera ogni veste, sicchè riesce a farsi prosciogliere. […]
Non di raro, invece, il fatto è più tragico e la passione per la bicicletta conduce fino al delitto di sangue. Nel 15 luglio 1895, un giovane diciannovenne, Enrico Go…, penetra di notte nella casa di un vicino per derubarlo del danaro che gli occorreva per comprarsi un biciclo. Essendosi quegli svegliato, egli a colpi di coltello lo uccise con tanto impeto da ferire anche se stesso”.
La bicicletta può anche essere uno strumento per compiere delitti:
“La grande mobilità del biciclo non solo facilita la sua sottrazione, ma serve come strumento ad altri furti e reati, agevolando le fughe e gli alibi, più che nol potessero i cavalli e le carrozze, d’ altronde tanto meno facili a procurarsi, e peggio le ferrovie percorse dal telegrafo e vigilate.
Così io so d’una signora del gran mondo che saliva in pieno giorno le scale di una casa del Boulevard Saint-Germain a Parigi, quando un biciclista elegantissimo, deposto il suo strumento alla porta, la segue, la oltrepassa e con un manrovescio la getta a terra, la deruba, e prima che essa si fosse rialzata, rimonta sulla sua bicicletta, sicchè non fu più possibile raggiungerlo.
Due giovani di famiglia doviziosa intraprendono il solito viaggio intorno al mondo, che ora ridiviene di moda e che è spesso opera di criminali in erba; in una città della Savoia, incontrano una signora che abbindolano con dolci propositi d’amore: e saputo dove essa tenga i gioielli e i denari, li rapiscono e col biciclo si sottraggono ad enorme distanza dalla regione ove compirono il delitto, sicchè il solo caso – la conservazione cioè di alcuni dei sottratti gioielli – potè farli riconoscere pochi mesi dopo a molte centinaia di leghe di distanza dal luogo del delitto”.
BICICLETTA E LETTERATURA IN ITALIA
In Italia gli scrittori furono generalmente favorevoli al nuovo mezzo di trasporto. Fa eccezione Matilde Serao che, prima di convertirsi alla “passione modernissima”, aveva inveito contro “l’atroce macchina” che destava “un moto di paura e di disgusto”.
Giovanni Pascoli dedica alla bicicletta una poesia dei Canti di Castelvecchio (1903), che termina così:
“La piccola lampada brilla
per mezzo all’oscura città.
Più lenta la piccola squilla
dà un palpito, e va…
dlin… dlin…”[2]
Anche Guido Gozzano dedica al velocipede una poesia, Le due strade, apparsa nella raccolta La via del rifugio nel 1907:
“Dalle mie mani in fretta
prese la bicicletta. E non mi disse grazie.
Non mi parlò. D’un balzo salì, prese l’avvio;
la macchina il fruscìo ebbe d’un piede scalzo,
d’un batter d’ali ignote, come seguita a lato
da un non so che d’alato volgente con le ruote.
Restammo alle sue spalle. La strada, come un nastro
sottile d’alabastro, scendeva nella valle.
Volò, come sospesa la bicicletta snella:
«O piccola Graziella, attenta alla discesa!»”
Alfredo Oriani negli ultimi tre anni dell’Ottocento fece un raid ciclistico appenninico di quasi mille chilometri, su quale scrisse poi un libro, per la verità di scarso successo. Sua l’affermazione: “la bicicletta […] è una scarpa, un pattino, siete voi stessi, è il vostro piede diventato ruota, è la vostra pelle cangiata in gomma, che scivola sul terreno, allungando il vostro passo da settantacinque centimetri ad otto metri”.[3]
Ma, tra gli scrittori italiani, il più grande estimatore e difensore della bicicletta fu il poeta bolognese Olindo Guerrini, polemista feroce, autore di burle memorabili, ma anche ciclista entusiasta e impegnato, essendo stato presidente del Touring Club Italiano; questo era nato nel 1894 a Milano come Touring Club Ciclistico Italiano e per questa origine porta ancora oggi la ruota di bicicletta nel suo simbolo grafico.
Guerrini ironizzò sull’annunciata tassa sulle due ruote, scrivendo: “Né molto andrà che per voler sovrano avrete un contator fra i due ginocchi e la marca da bollo al deretano”.
Protestò inoltre vivamente quando, nel 1897, vide, all’ingresso della città di Bologna, le guardie daziarie smontare le selle per rendere le biciclette meno “offensive”.
Fu inoltre autore di un particolare “esperimento” per verificare se si potesse pedalare instancabilmente e, insieme, lavorare con la mente in modo raffinato.
Alle 3,40 di un 1° luglio parte in bicicletta, lungo la strada da Bologna a Rimini: spinge sui pedali a più non posso e al tempo stesso compone un sonetto. Il figlio lo accompagna, pure lui in bici, col compito di annotare su un foglio il lavoro letterario. Verso San Lazzaro nasce il primo verso, al ponte sull’Idice, a Maggio, la seconda quartina. A Maggione la lirica è praticamente tutta imbastita e ci sarà tempo e capacità per limarla fino a Rimini. Il ciclista allora non si beve il cervello quando pedala, purtuttavia, annota Guerrini con una punta di rammarico: “la mente costretta al lavoro durante lo sforzo fisico del correre in bicicletta fatica molto e lavora male”.[4]
LA VITTORIA DELLA BICICLETTA
La vittoria finale della bicicletta si può intravedere in un articolo del direttore del Boston Medical & Surgical Journal che, nel 1894, scriveva: “i medici, considerando i tanti benefici delle gite in bicicletta per giovani gracili e ragazzine anemiche, si guarderanno bene dall’eccedere in allarmismi e considereranno con favore l’abitudine del pedalare, anzi la consiglieranno senza indugi”.
Lo stesso Cesare Lombroso, dopo tante preoccupazioni per la bicicletta come causa e strumento di delitto, concludeva ammettendone i vantaggi. Riconosce che il biciclo “fu alleato nelle votazioni ai partiti politici più evoluti e che perciò sanno servirsi dei mezzi più moderni di lotta”. Plaude all’uso del “tandem costrutto pei ciechi del Reale Collegio di Upper Norwod che permette a 12 ciechi uniti insieme, e guidati da uno che ci vede, di godere l’aria aperta ed il moto”. Ma soprattutto:
“Il biciclo promette di migliorare sostanzialmente la nostra razza: infatti se, come tutti gli strumenti di civiltà, ha aumentato le cause e i mezzi del crimine, ha poi raddoppiato le gioie più oneste della vita e le fonti del benessere: ha dato, in un’epoca in cui gli eccessi del lavoro mentale rendevano quasi endemica la nevrastenia, uno strumento che sprona all’esercizio motorio senza quegli esaurimenti che producono gli eccessi dell’ alpinismo e della ginnastica poco scientifica così giustamente combattuta dal nostro Mosso.
E siccome l’uomo è tanto più buono quanto più è sano, così indirettamente ha poi diminuito alcune delle sorgenti della criminalità e della pazzia. Ed a proposito: mentre da ogni parte si cerca in nobili distrazioni il rimedio al fatale alcoolismo che ha la sua base nel bisogno sempre maggiore di eccitamenti psichici: la passione del biciclo, che è incomportabile coll’azione dell’alcool così deprimente degli arti inferiori, sta allestendocene il supremo dei rimedi. È certo che, da quanto io e mio figlio abbiamo potuto osservare, lungo i percorsi delle vie maestre delle grandi borgate, nelle strade più battute dal ciclista, molte osterie si sono cambiate in rivendite di acque gazose e sciroppi e caffè. Certo io come alienista ho veduto forme gravissime di nevrastenie e melanconie mitigarsi sotto questo meraviglioso strumento.
E se una satira arguta ha voluto mostrarci il cicloanthropos dell’avvenire come curvo, colle braccia atrofiche, e la schiena gibbosa, io amo invece poter dire che il cicloanthropos del secolo XX soffrirà meno di nervi, sarà più robusto di muscoli dell’uomo del secolo ora trascorso.
E così certamente per uno o due mali che il biciclo ci provoca, saranno dieci i beni che ci recherà in dono”.
Lombroso scriveva queste parole nel 1900; quindici anni dopo il mondo era in guerra, la bicicletta fu usata come mezzo di trasporto da soldati di tutti gli eserciti, i futuristi le dichiararono “benedette dalla Patria”, e terminarono tutte le polemiche sui possibili danni del suo uso.
[1] Per chi fosse interessato a un primo approfondimento: https://en.wikipedia.org/wiki/New_Woman
[2] Giovanni Pascoli potrebbe aver tratto ispirazione da “La bicicletta di Ninì” (1902), una novella di Alfredo Panzini, e da due componimenti, Bicycula” (1900) e “In re ciclistica Satan” (“Satana nel ciclismo”, 1902), con cui il poeta romagnolo Luigi Graziani aveva partecipato al concorso di poesia latina di Amsterdam.1
[3] “Scrittori della bicicletta”, su “La bicicletta” (1902).
[4] Le notizie su Olindo Guerrini son tratte da: Claudio Santini, “Il ciclismo nel delitto. Antropologia, cronaca nera e poesia di quando la bici era troppo moderna”. http://www.hypertextile.net/arteinbici/dokumenta/delitt.htm