Libri alla Ponentina – Il presepio (Giorgio Manganelli)
Giorgio Manganelli “Il presepio” Ed. Adelphi
Il libro venne pubblicato postumo sulla base delle carte ritrovate da Ebe Flamini che era stata anche compagna dello scrittore.
Una prosa, non facile, va detto, ma come sempre elegante e preziosa – scintillante come si conviene alla festività più amata dell’anno – per porgere su un vassoio dorato la più caustica e iconoclastica invettiva contro l’ipocrisia dei buoni sentimenti religiosi e non solo. Una bella bevanda, acidula e forte, per diluire la melassa, che l’editoria spande per rendersi gradita al grande pubblico, e per assicurarsi buoni incassi.
Per presentare il libro ho estratto e adattato alcune frasi del testo. Ribadisco che non è per i tradizionalisti amanti del Natale.
Nella città in cui vivo, anzi in tutte le città in cui potrei vivere, sta arrivando il Natale. Alcuni dicono, il Santo Natale. Sebbene la mia vita sia distratta e disorientata, da molti segni, come gli animali, mi accorgo della imminenza del Natale. L’irrequietezza agita i miei simili; una sorta di inedita tristezza che si accompagna ad una smania, una torbida cupezza, una litigiosità capziosa, non di rado violenta, ma soprattutto aspramente angosciosa. Quando il Natale si approssima, l’infelicità si scatena su tutta la terra, invade gli interstizi, ci si sveglia al mattino con quel sentimento, discontinuo durante l’anno, che vivere a questo modo pare intollerabile, forse disonesto, una bestemmia. Strano che abbia scelto questa parola, sostanzialmente pia, per descrivere l’infelicità natalizia. E infatti questo avverto, che a differenza della desolazione che direi privata, attraverso la quale passiamo in vari momenti dell’anno, questa è una tetraggine che ha dell’astronomico, come a dire che gli astri sono coinvolti, e forse la tristezza che suppongo mia in realtà è un affetto che tocca gli estremi dell’universo, e oltre, se si dà un oltre.
Se questo è l’esordio, possiamo immaginare il resto.
[…] Non so se alcune consuetudini del Natale siano comuni a tutte le città in cui si celebra; ma suppongo che non differiscano gran che; ad esempio, gli acquisti di cibo, segno palese della sensazione di deperimento che coglie i vivi; il recitato rafforzamento del vincolo domestico: infatti infatti si usa mettere assieme, in modo che a me pare indecoroso, nonni, avi, nipoti, parenti acquisiti in guise non di rado ambigue; ma scusa questa usanza il panico che sottende, la sensazione che ogni volta si stia facendo la conta, come su un vascello che affondi; ma non affondi per tempesta o naufragio, ma per una sua intrinseca vocazione ad affondare.
Ma il peggio deve ancora venire.
Infine, si afferma che codesta festa sia specialmente consacrata ai bambini. Anch’io sono stato bambino, giacché in questa parte della galassia l’infanzia, una lunga, lenta infanzia, fa parte dei riti necessari alla produzione di un morituro; ma di quella età conservo pochi, e non tutti amabili ricordi. Perché mai, mi chiedo, mettere in opera una festa dei bambini? È un atto di pietà collettiva verso questi esseri che vivono i loro avari mesi di immortalità? O non sarà piuttosto che codesti bambini vengono usati […] come segni deliberatamente ingannevoli, intesi a tener testa allo sfascio del mondo? È possibile; e, sia vero o falso, le storie dei bambini sacrificati agli dèi con fuoco e ferro mi pare alludano a questo appunto, al tentativo di far moneta dell’infanzia per dilazionare il disastro del mondo; ed uso «disastro» appunto con pedanteria etimologica, giacché voglio tener visibile il fatto che non si tratta di un malumore stagionale, ma di un malessere cosmico, che dal mio orologio procede verso gli astri più lontani in una sorta di epidemica malsania universale.
Queste citazioni hanno un po’ la funzione dei campioncini di profumo, si annusa e se è il caso si prende.