“Papalagi ” Discorso del capo Tuiavii di Tiavea delle isole Samoa – Ed. Stampa Alternativa
Questo libro è stato ampiamente illustrato negli articoli Selvaggio sarà lei! (1 e 2) della rubrica Fogli sparsiai quali rimando. Qui riporto alcune citazioni particolarmente interessanti.
Il cinema visto da altri spettatori.
Il cinema è una capanna, più grande della grande capanna del capo di Upolu, molto più grande. È buia anche nei giorni più chiari, così buia che non si riesce a vedere niente. Si rimane abbagliati quando si entra, e ancor più abbagliati quando se ne esce. Vi strisciano dentro le persone, vanno tastoni lungo le pareti, finché arriva una donna con una scintilla di fuoco e li conduce dove c’è ancora posto. I Papalagi stanno accovacciati nell’oscurità vicinissimi l’uno all’altro, la stanza buia è piena di persone in silenzio. Ognuno sta seduto su una stretta tavoletta; tutte le tavolette stanno nella direzione della stessa parete. Dal fondo di questa parete, come da una profonda voragine, escono fuori con impeto forti rumori e ronzii, e appena gli occhi si sono abituati all’oscurità, si distingue un Papalagi che da seduto lotta con una cassa. Vi sbatte sopra con le mani ben allargate, su molte piccole lingue bianche e nere che la grande cassa tira fuori, e ogni lingua manda alte grida, ognuna con un suono diverso a ogni tocco, provocando uno stridore folle e selvaggio, come se tutto il villaggio fosse in lite. Questo fracasso dovrebbe distogliere e indebolire i nostri sensi; per farci credere a quel che vediamo e non farci dubitare che esista realmente. Davanti, sulla parete, risplende un raggio di luce, come se vi brillasse un vivido chiaro di luna, e nella luce si vedono uomini, veri uomini, con l’aspetto e nei panni di veri Papalagi, che si muovono e vanno su e giù, che corrono, ridono, saltano, proprio come si vede ovunque in Europa. È come l’immagine riflessa della luna nella laguna. È la luna, ma non lo è. Anche questa è solo un’immagine. Tutti muovono la bocca, non si può dubitare che parlino, ma non si sente né suono né parola, per quanto si cerchi di ascoltare e sia angosciante non sentire niente.
Nulla da dire, la descrizione è perfetta, ricordiamo che il cinema all’epoca della pubblicazione del libro era muto, in sala si effettuava un accompagnamento musicale su pianoforte, dal vivo. Chissà se Tuiavii ha poi saputo che il cinema era destinato a diventare sonoro. Questo brano ci può strappare un sorriso, ma proseguiamo nel commento.
Trascinare dentro di sé queste false immagini che non hanno una vita reale: è questo che procura tanto piacere al Papalagi. In questa stanza buia può insinuarsi in una vita falsa, senza vergogna e senza che gli altri uomini lo vedano in viso. I poveri possono giocare a fare i ricchi, e i ricchi i poveri, l’ammalato può fingersi sano, il debole fingersi forte. Ognuno può nell’oscurità prendere per sé e vivere nella finta vita quel che nella vita reale non ha vissuto né mai vivrà.
Dedicarsi a questa finta vita è diventata una grande passione del Papalagi, una passione talvolta così forte da far dimenticare la vita reale. Questa passione è insana perché un uomo giusto non può volere una vita d’apparenza in una stanza oscura, ma una calda vita reale alla luce del sole.
È chiaro che qui non possiamo essere d’accordo, il commento è decisamente oscurantista, nega valore ad un prodotto artistico. La “vita finta” È una di quelle considerazioni che si rifanno al mito del “buon selvaggio” e al rifiuto del progresso che ho criticato nell’articolo.
Considerazioni analoghe sono riportate a proposito dei giornali.
Anche le molte carte producono una specie di ubriacatura e vertigine nel Papalagi. Cosa sono le molte carte? Immaginatevi una stuoia di tapa sottile e bianca ripiegata, tagliata e piegata di nuovo, con scritte fitte su tutte le parti, molto fitte: queste sono le molte carte, o, come li chiama il Papalagi, i giornali.
[…] Viene comunicato tutto quello che avviene e cosa fanno e non fanno gli uomini; i loro pensieri buoni e cattivi, e anche se hanno macellato un pollo o un maiale o se si sono costruiti una nuova canoa. Non avviene niente in tutto il paese che questa stuoia non racconti coscienziosamente. Il Papalagi lo chiama: «Essere ben informato su tutto ». […] Anche se si tratta di atrocità di ogni tipo, che chi è sano di mente preferisce dimenticare in fretta. E invece proprio queste cose brutte e dolorose vengono descritte fin nei minimi particolari, più di quelle belle, come se non fosse molto più importante e gratificante comunicare il bene piuttosto che il male. […] Puoi startene steso tranquillamente sulla tua stuoia e le molte carte ti raccontano tutto […] Ma è sempre un’esperienza più forte gioire insieme di una festa o soffrire per un dolore, anziché farsi raccontare tutto da bocche estranee senza aver visto niente con i propri occhi. Ma a danneggiare il nostro spirito non è tanto il fatto che il giornale ci racconti cosa succede, ma che ci dica anche cosa dobbiamo pensare di questo e di quello, dei nostri grandi capi o di quelli degli altri paesi, di tutto quel che succede e di quel che fanno gli uomini. Il giornale vorrebbe che tutti pensassero come se avessero la stessa testa, e combatte contro la mia testa e il mio pensiero. Vuole che ognuno abbia la sua stessa testa e il suo stesso pensiero. E ci riesce.
Il luogo della finta vita e le molte carte hanno reso il Papalagi quel che è: un uomo debole e confuso, che ama ciò che non è reale, e che non riesce più a riconoscere quel che è reale, che confonde l’immagine della luna con la luna stessa e una stuoia scritta con la vita stessa.
Certo con la stampa non si può, a ragion veduta, essere molto teneri; ma la visione di un piccolo paradiso che se ne sta nella beata ignoranza di quello che avviene nel mondo non si può accettare, né ora né all’epoca della pubblicazione del libro, non è realistica.
Il libro tuttavia è stimolante; sulle considerazioni critiche rivolte alla nostra civiltà, cosiddetta avanzata, dovremmo riflettere in una duplice direzione:su gli aspetti negativi e deleteri, per tutto il genere umano, che la caratterizzano, e sul rischio di rifugiarci in un’utopia passata e passatista, che non è mai esistita. Il ritorno ad uno stato di natura semplice e felice è impossibile, homo è diventato tale proprio quando si è allontanato dalla natura divenendo cosciente di sé e del bene e del male: il peccato originale ci ha scacciato dall’Eden, per sempre, lasciandoci alla nostra responsabilità.