LA DOMENICA DEL PONENTINO
Rubrica settimanale di Narrativa e Poesia
VIA GOBETTI
Il Campetto [racconti degli anni 50/60]
Pier Guido Qaurtero
Con la partenza improvvisa della Romana e dei suoi familiari, l’area abbandonata degradò abbastanza in fretta. Immagino che la cosa non facesse piacere agli adulti, ma per noi bambini fu un’autentica pacchia. Quel grande spazio libero divenne rapidamente il punto di incontro dove ci si incontrava per scatenarci nei nostri giochi, che consistevano essenzialmente in esplorazioni, giochi di guerra e, soprattutto, pallone. Fateci caso: nel raccontarvi di questi tempi gloriosi, non accennerò quasi mai alla presenza delle bambine. Il mondo di allora era un bel po’ diverso da quello di oggi, e i giochi del campetto erano riservati ai maschi. Le femmine (riconoscibili da adulte perché avevano il seno) da piccole non erano da parte nostra oggetto di più che tante considerazioni; erano esseri piuttosto fragili, che piangevano con una certa facilità e con la curiosa abitudine di fare la pipì accucciandosi, chissà perché.
Inizialmente, la squadra del Campetto era composta soprattutto da ragazzini provenienti dalla Casa Gialla (la nostra) e dalla Casa Rosa. Da quella casa proveniva il nostro capo indiscusso: Franco, che tra l’altro aveva lo stesso nome e le stesse fiere caratteristiche di un importante personaggio del romanzo “I Ragazzi della Via Paal”, di Ferenc Molnàr, un libro che costituiva per me un punto di riferimento, dato che raccontava una storia simile alla nostra: lo scontro di due bande rivali per il controllo di un terreno abbandonato. La squadra nemica, proveniente da un’altra via del quartiere, prendeva nome da questa: erano i ragazzi di Via Zara, un po’ più grandi e un po’ più tosti di noi. Per fortuna, noi avevamo Franco, che ea imbattibile.
Dalla Casa Rosa veniva anche Piero, l’attendente del capo. Con lui avevo una certa rivalità, dovuta al mio essere alla testa dell’esercito dei piccoletti della Casa Gialla (il mio fratellino Maurizio e un altro amichetto, Mauro, di cui parleremo dopo), e quindi naturalmente anche io una figura emergente del nostro schieramento.
Proprio come avveniva nei Ragazzi della Via Paal, venne deciso che il controllo del Campetto sarebbe stato deciso con una battaglia; trattandosi di uno scontro genovese, tra discendenti di Balilla, si intendeva che la battaglia sarebbe stata una sassaiola. Noi saremmo stati i difensori e quelli di Via Zara gli attaccanti: così ci organizzammo. Franco ci diresse nella costruzione di mura difensive realizzate utilizzando i resti di quella che era stata la casa della Romana, e accumulammo armi per lo scontro: sassi, canne e perfino archi, costruiti con canne secche e spago.
Sfortunatamente, la nonna (una delle grandi potenze che vegliavano sul mantenimento dell’ordine internazionale) si avvide di tutto quel traffico inusuale ed assunse informazioni. Il risultato fu che nel giorno della battaglia noi ci trovammo ad assistere all’evento dalla finestra, chiusi in casa. Andò così, che Franco, praticamente solo, si asserragliò nella fortezza, dove però un sasso finì per colpirlo. Come spesso accade in queste occasioni quando il danno non è troppo, il dolore, anziché ridurre l’eroe ferito a più miti consigli, gli fece montare la mosca al naso, sicché lo vedemmo saltare gridando il muretto difensivo e precipitarsi verso l’esercito avversario, che, spaventato, volse in una fuga disordinata. Questa fu la grande battaglia del Campetto, della quale anche noi, malgrado la nostra partecipazione non sia stata tanto incisiva, andiamo fieri ancora adesso.
La regola, a quel punto, venne trovata tacitamente e senza ulteriori spargimenti di sangue. Chiunque arrivasse, in qualunque momento, aveva diritto a giocare (a pallone, s’intende) aggiungendosi ad una delle formazioni in campo sulle base delle decisioni assunte dai capi delle squadre. S’intende che, data la differenza di valori, ciò poteva comportare anche modifiche significative agli schieramenti, poiché le integrazioni dei due fronti non potevano essere fatte sempre su una base di parità: nei fatti, poteva accadere che uno dei “buin” (trad: buoni, capaci) valesse due e anche tre “grammi” (scarsi, incapaci). Noi, più piccoletti, eravamo considerati “grammi”, ma avevamo trovato il modo di farci rispettare cacciandoci tra i piedi di chi teneva palla. Nella confusione, questa poteva sfuggire dal mucchio e magari Mauro riusciva a prenderla. Tenete presente che allora il gioco consisteva soprattutto nel prendere “o balòn” e correre verso la porta avversaria. Mauro era molto veloce, e quando si trovava nella giusta condizione si poteva vedere una nuvoletta di polvere (terra e sassi era il fondo, mica verdi zolle erbose…) alzarsi dai suoi piedi mentre si precipitava verso la meta. Poi diventammo più grandicelli e magari proprio buoni non eravamo, ma non eravamo neanche più così scarsi, e arrivarono altri, da Via Parini e da Via Trento, e facemmo amicizia con i ragazzi del nuovo distributore AGIP: una bella struttura moderna, che aveva anche i rotoli con lo spruzzo per lavare le automobili. Fu una grande amicizia, che poi è durata negli anni, e qualcuno di loro ormai si è già trasferito a giocare a pallone nei verdi pascoli del cielo, ma bando alle tristezze. Di quegli anni ricordo ancora gli scontri con i giocatori di bocce, che venivano a sistemarsi dietro alle porte del campo e, quando facevamo goal, si prendevano delle gran pallonate nella schiena: certe volte si rideva, ma altre volte si gridava…
Così il tempo passò e l’impegno dello studio divenne più assorbente e ci avvicinavamo al sessantotto e qualcuno cominciò a parlare di politica e ci accorgemmo anche che le bambine erano diventate ragazze e quando ci capitava di parlargli bisognava stare attenti perché, senza capirne il motivo, ti poteva capitare di arrossire o magari ti veniva la voce roca e tutto questo genere di cose. Stavamo diventando grandi. Intanto, i contadini avevano abbandonato la Valletta, e rimaneva solo Tugnìn, su una striscia di terra sempre più stretta. Il Comune aveva realizzato un bel parco con campi da tennis affidati alla gestione del CONI e per un po’ andammo a prendere lezioni anche noi. Ci facevano anche gli incontri internazionali e ci giocarono anche qualche partita di Coppa Davis (me ne ricordo una col Sud Africa, per cui un vicino di casa ci aveva regalato il biglietto. La squadra italiana era composta da Pietrangeli, Maioli e poi Beppe Merlo, inventore del rovescio a due mani: era specialista in certi tiri tagliati che i giornalisti sportivi definivano “da signorina” perché, ben lontano dal gioco muscolare di oggi, spediva oltre la rete delle pallette molle, prive di rimbalzo, difficilissime da rinviare, che facevano perdere l’equilibrio agli avversari e si vedeva benissimo che ogni tanto tiavano giù dal cielo un bel po’ di santi.
Insomma. Gli anni sono passati, e nessuno di noi abita più lì, in Via Gobetti (e neanche in Via Gluck, come dice il Re degli Ignoranti, uno che a quei tempi cominciava la sua carriera con Ventimila Baci e per quanto ne so è ancora lì)). Ora, al posto del Campetto, c’è un bar fighetto, con un suo campo da tennis e un comodo parcheggio, e per me va anche bene così, perché ormai di correre avanti e indietro con la palla non ne ho mica più voglia.
Puntate Precedenti Via Gobetti:
(1)Tugnìn
(2)La Romana
Pier Guido Quartero
Opere dell’autore pubblicate da Liberodiscrivere